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ROMA. La prima reggia di Nerone sul Palatino apre al pubblico.

“Roma domus fiet…Roma diventerà l sua casa: emigrate a Veio, o Quiriti, se questa casa non occuperà anche Veio”, così scriveva Svetonio riportando una scritta che sarebbe apparsa sui muri cittadini in riferimento ai progetti faraonici di Nerone (che regnò dal 54 al 68 d. C), che inizia a trasformare l’urbe a misura del suo gusto e della sua ambizione. E ancora “Fatta costruire per sé una casa che dal Palatino andava all’Esquilino, dapprima la chiamò Transitoria; poi quando un incendio la distrusse, la fece ricostruire e la chiamò Aurea”. E si potrebbe continuare con Tacito che ricorda che Nerone non si mosse da Anzio quando il fuoco minacciava la sua residenza che congiungeva il Palatino con i Giardini di Mecenate. Ma mentre per la Domus Aurea molte sono le testimonianze, le fonti letterarie, i dati e i resti materiali, più scarse sono le conoscenze che riguardano la Domus Transitoria che in certo senso l’ha preceduta, quasi una prova generale. Un silenzio, una “damnatio memoriae” che ha riguardato la Domus Aurea sulla quale vengono impiantate le Terme di Traiano, ma ancor di più la Domus Transitoria cancellata già nel I secolo d. C. , dopo l’incendio del 64 d. C., e dopo l’edificazione del Palazzo dei Flavi.
Ora la prima reggia di Nerone sul Palatino, emersa dall’oblio, è aperta al pubblico dal 12 aprile scorso. Dimenticata non meno della più famosa Domus Aurea riscoperta casualmente nel Rinascimento, la Domus Transitoria, i cosiddetti “Bagni di Livia” (così chiamati perché le tracce delle tubature furono considerate conduttore idriche), ubicata al di sotto della “Cenatio Iovis” della Domus Flavia, venne riscoperta nel 1721 durante gli scavi promossi dai Farnese. Allora vennero individuati il triclinio/ninfeo e due ambienti limitrofi, ma la scoperta ebbe come conseguenza il saccheggio e il trasferimento delle pitture staccate ai Farnese di Parma, quindi a Napoli dopo il matrimonio di Elisabetta Farnese con un Borbone. Gli scavi ripresero nel 1861 su ordine di Napoleone III che aveva acquistato gli Orti Farnesiani da Francesco II di Borbone, re di Napoli e poi nel 1910 e negli anni successivi con Giacomo Boni quando lo scavo scende in profondità, scoprendo altri ambienti, le due scale d’accesso in marmo, la grande latrina e resti di rivestimenti, frammenti marmorei e bronzei. Ma sarà l’archeologo inglese Thomas Ashby nel 1929 ad attribuire le strutture trovate da Boni, morto nel frattempo, alla Domus Transitoria.
Questi spazi restituiti alla fruizione pubblica faranno parte del percorso neroniano annunciato da Alfonsina Russo, responsabile del Parco Archeologico del Colosseo. Un itinerario di visita che partendo dalla Domus Transitoria raggiunge il Criptoportico neroniano, il passaggio sotterraneo lungo 130 metri che conserva pavimenti in mosaico, che collegava diversi settori dei palazzi imperiali dal clivo Palatino alle case di Livia e di Augusto, tocca il Museo Palatino, riallestito in occasione del bimillenario augusteo del 2014 che nella sala dedicata a Nerone espone della Collezione Farnese due fregi affrescati a soggetto dionisiaco e alcuni pannelli in cui sono montate delle losanghe dipinte che decoravano la volta della Domus Transitoria, prestati per tre anni dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli, per raggiungere infine la Domus Aurea, la reggia costruita da Nerone dopo l’incendio del 64 d. C. su progetto di Severo e Celere, “magistri et machinatores” e del pittore Fabullus, lo stesso che lavora alla Domus Transitoria, citato da Plinio nella “Naturalis Historia” per il suo stile a volte “fluido e vibrante”, a volte “grave e severo”.
Ma cos’era la Domus Transitoria? Nella storia dell’architettura antica bisogna ricordare che quando si parla di Domus Transitoria e della sua evoluzione in Domus Aurea, si ha a che fare in entrambi i casi con “complessi probabilmente mai del tutto finiti”, scrive nel catalogo Electa pubblicato per l’occasione Stefano Borghini. Un palazzo e residenza imperiale, si suppone, costituito da diversi padiglioni distribuiti sulla linea del collegamento fra i palazzi palatini e gli Horti di Mecenate. Un complesso articolato che Nerone aveva sperimentato nella sua villa extraurbana a Subiaco, che ricordava le ville marittime campane. Non l’idea di un folle, ma un preciso messaggio politico. Roma come le città dell’Egitto tolemaico e un modello rigidamente dispotico di governo.
E’ lo “specus aestivus” ricordato da Alessandro D’Alessio. Un edificio semi – ipogeo, scavato nel Palatino. Un parallelepipedo rivestito di cortine murarie e vespai per contrastare l’umidità, diviso tramite pilastri, con sale voltate e due scale di accesso. L’ampia sala centrale “en plein air”, allestita con uno spettacolare ninfeo, un “frons scaene” e nicchie e zampilli d’acqua. Un vero e proprio spettacolo teatrale che si poteva ammirare da una specie di baldacchino sopraelevato posto di fronte. Ambienti che dal 2011 sono stati sottoposti a un complesso restauro conservativo che ha interessato tutto il monumento, spiega Maddalena Scoccianti. Puliti e disinfestati i pavimenti, consolidate le superfici murarie e gli elementi metallici, eseguite le stuccature necessarie, alterando il meno possibile l’assetto raggiunto per mantenere intatto il senso di meraviglia e di scoperta che provavano i visitatori di un tempo che “attraverso bronchi, spine, arbusti, muri crollanti, muri caduti, penetrando tra le fessure” si addentravano nei Bagni di Livia scoprendone le meraviglie alla luce delle torce, come racconta Antonio Nibby che gettò le basi della topografia monumentale di Roma. In linea con questa impostazione l’illuminazione diffusa, percorsi obbligati per salvaguardando la pavimentazione originale e il ricorso a apparati multimediali che abbattono virtualmente le pareti divisorie dei Flavi e riaccendono gli zampilli delle fontane, i colori dei marmi e il luccichio dell’oro.
Ed è questo gioiello dell’architettura neroniana, trionfo di stucchi, pavimenti, affreschi, incrostazioni d’oro, fontane, in una fuga di colonne da ogni lato che si vede indossando un caschetto nella grande sala. E’ il trionfo del colore, della quadricromia neroniana, dei marmi provenienti da tutti gli angoli dell’impero: il giallo di Numidia, il pavonazzetto detto “frigio” per la regione di provenienza dell’Asia Minore, il porfido verde di Grecia, il porfido rosso dell’Egitto.
Ma prima di arrivare al clou della visita rappresentato dalla ricostruzione virtuale del ninfeo – triclinio, attraversando gli ambienti interrotti dai muri di fondazione del palazzo imperiale dei Flavi, si fanno altre scoperte. Alcune prevedibili come i lacerti di pavimenti in marmi connessi e i resti di affreschi sulle volte, altri meno consueti come la grande latrina. In un ambiente rettangolare corrono i caratteristici banconi con cinquanta sedute al di sopra di un canale fognario, una canalina di acqua corrente al di sotto. Un tipo di latrina molto diffuso nel mondo romano, che ha fatto pensare per l’ampiezza che fosse a servizio dei lavoratori impiegati nella costruzione della Domus Aurea.
Uscendo un’altra sorpresa, frutto delle diavolerie della realtà virtuale, un’intera parete larga sei metri di cui quattro rimasti, completamente rossa che conserva tracce dell’originaria decorazione con elementi tipici della pittura di giardino, come nel triclinio della Villa di Livia a Prima Porta. Ma realizzata in modo semplificato, qui lo sfondo non è il cielo, ma il colore rosso e compaiono tratti incisi da mani antiche: parole, un uccellino e sei cerchi tracciati con un compasso. Uno spazio che si rianima con la luce mostrando com’era, che rivela i segni lasciati da qualcuno forse in attesa di entrare nella latrina.

Roma, Palatino. Parco Archeologico del Colosseo. Dal 12 aprile 2019. Prevendita e visite guidate: tel. 06-39967700 e www.parcocolosseo.it

Autore: Laura Gigliotti

Fonte: www.qaeditoria.it, 16 aprile 2019

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