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MILANO. I neurochirurghi operavano già nella Roma Imperiale.

Il teschio del bambino di Fidene esposto a Roma

Il suo nome oggi non lo conosce nessuno, non sappiamo neppure se era un maschietto o una femminuccia. Aveva cinque o sei anni e viveva nel II secolo dopo Cristo a Fidene, piccola cittadina a pochi chilometri a nord della Roma imperiale, sulla via Salaria. Erano gli anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio; l’Impero aveva raggiunto la sua massima estensione, le politiche interne erano improntate a tolleranza e buona amministrazione, erano state promulgato leggi a favore degli schiavi tanto che gli storici hanno parlato di “buoni imperatori” e di “secolo d’oro” dell’Impero Romano. Fidene in quel periodo era una cittadina di campagna, con alcune ville di nobili ma per lo più abitata da contadini e pastori. Il bimbo era probabilmente figlio di uno schiavo o un liberto di uno dei proprietari terrieri della zona e, quando aveva cinque o sei anni, è stato operato alla testa da un medico che gli ha perforato il cranio in un intervento chirurgico delicatissimo. Il piccolo sopravvisse un mese o poco più. Quindi fu sepolto in una tomba di gente comune, tornata alla luce durante uno scavo a Fidene all’inizio degli anni ’90.
Il teschio del «bambino di Fidene» esposto a Roma
IL REPERTO – Gli archeologi si resero subito conto di avere fra le mani un reperto davvero speciale, una delle rare testimonianze di trapanazione cranica nel mondo antico. Oggi, dopo vent’anni, il bambino di Fidene è uno dei fiori all’occhiello del Museo di Storia della Medicina dell’università La Sapienza di Roma. Il cranio, perfettamente conservato, è esposto assieme al resto dello scheletro ed è stata ricostruita la sepoltura come è stata rinvenuta nello scavo. Gli occhi dei visitatori si appuntano sul l’enorme foro in testa: sembra incredibile che quasi duemila anni fa, senza antibiotici o anestesie, sia stato possibile un intervento simile. «Questo reperto è unico perché si tratta per ora della più antica prova di un trattamento chirurgico in qualche modo “palliativo”, per gestire una malattia cerebrale grave: molto probabilmente il bambino aveva un tumore al cervello», racconta Valentina Gazzaniga, direttore del Museo romano.
LA MALATTIA – Proviamo a tornare indietro nel tempo e immaginare che cosa possa essere successo al piccolo. Il suo cranio era più ampio della norma, con le ossa spinte dall’interno da una massa. Il bambino aveva probabilmente fortissimi mal di testa e sintomi gravi, dal vomito alle convulsioni, da crisi epilettiche a stati di torpore assoluto. Forse si è deciso di operarlo con un intervento difficile e pericoloso per tentare di lenire le sue sofferenze: il foro nel cranio e la rimozione di una parte di osso erano l’estremo tentativo di ridurre la pressione interna al cervello. Analizzando l’apertura, di circa cinque centimetri di diametro, i paleopatologi si sono accorti che sui bordi si era parzialmente riformato materiale osseo: segno che il bimbo è sopravvissuto almeno 30, 40 giorni dopo l’intervento, che fu certamente complesso e presumibilmente parecchio costoso. Com’è possibile che un bimbo di umili origini sia stato curato in questo modo?
«A quel tempo il padrone era un pater familias, un padre di famiglia per i suoi schiavi e liberti – spiega Gazzaniga -. Aveva obblighi giuridici oltre che morali nei confronti di chi viveva nella sua domus e doveva occuparsi anche della salute dei figli dei propri sottoposti: il bimbo era probabilmente figlio di un liberto e il padrone si fece carico delle sue cure, verosimilmente inviandolo a Roma per l’intervento».
OPPIO O VINO – Nella Roma imperiale il secondo secolo fu un’età d’oro anche per la medicina e la chirurgia, i medici riuscivano a eseguire interventi tecnicamente difficili come la rimozione di calcoli o il trattamento di ernie o cataratta.
«I chirurghi erano digiuni in tema di anestesia e disinfezione del campo operatorio, ma avevano molte conoscenze empiriche: davano al paziente l’oppio o il vino, lavavano gli strumenti chirurgici con acqua e aceto. Non molto, ma meglio di niente», dice Gazzaniga.
Fu soprattutto il famoso medico Galeno a dare le raccomandazioni e le indicazioni per eseguire gli interventi chirurgici, compresi quelli di trapanazione del cranio. Galeno operava a Roma in quegli anni, aveva scritto diffusamente dell’operazione a cui fu sottoposto il bambino di Fidene e quindi, secondo alcuni, potrebbe essere stato addirittura lui a eseguire l’intervento. Non ci sono prove, ovviamente, ma colpisce leggere ciò che scrisse Galeno e immaginare cosa possa aver passato quel bambino, mentre il medico gli somministrava alcol e decotti di erbe sedative e allucinogene prima di usare il kyklyskos, uno speciale scalpello adatto a tagliare le sottili ossa del cranio di un bimbo.
L’INTERVENTO – Stando alla ricostruzione dei paleopatologi, il medico aveva inciso con sicurezza l’osso identificando con buona approssimazione la zona del cervello più compromessa dalla malattia e anche quella dove intervenire sarebbe stato più sicuro, per ridurre al minimo la probabilità di emorragie. Lo scalpello aveva percorso una linea continua, a forma di U, e poi l’osso era stato sollevato e tolto: una tecnica diversa rispetto a quelle usate per la trapanazione in caso di fratture o traumi cranici dai medici dell’antichità, probabilmente scelta perché il paziente era un bambino.
La ferita poi era stata fasciata e medicata secondo le ricette di Galeno: polvere delle radici di erbe varie, olio di rosa, sangue caldo di piccione o di colomba, polvere di coralli neri e una mistura di aceto, miele e sale marino in acqua piovana. Purtroppo la ferita dopo qualche tempo si è infettata, come ha dimostrato l’analisi delle ossa vicine al foro: un’evenienza ovviamente molto frequente a quei tempi, che verosimilmente ha portato alla morte il bimbo in pochi giorni. Nonostante questo tutte le analisi mostrano che di lui si presero cura medici competenti, che fecero di tutto per salvargli la vita: non ci sono segni di stress sulle ossa lunghe o sulla dentatura, segno che la malattia non aveva provocato danni considerevoli fino alla fine. Probabilmente, considerando la bassa estrazione sociale del bambino, oltre al chirurgo si occupò di lui di un servus medicus, ovvero uno schiavo che aveva acquisito competenze mediche particolari e curava gli altri schiavi e i liberti. E oggi il bimbo di Fidene è una preziosa testimonianza, la prova che anche secoli fa i medici cercavano con compassione e determinazione di strappare alla morte i loro malati.

Autore: Alice Vigna

Fonte: http://www.corriere.it, 23 dic 2012

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