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LIPSIA (D). Un po’ più di Neanderthal nel nostro genoma.

Il contributo dei Neanderthal al genoma delle popolazioni non africane moderne è più elevato di quanto finora pensato, interessando fra l’1,8 e il 2,6 per cento dei geni, contro la stima precedente dell’1,5-2,1 per cento. Questo è solo uno dei risultati ottenuti da ricercatori del Max-Planck-Institut per l’antropologia evolutiva a Lipsia, in Germania, che ha ottenuto un sequenziamento completo di altissima qualità del genoma estratto dai resti di una donna neanderthaliana, venuti alla luce nella grotta di Vindija, in Croazia, vissuta circa 52.000 anni fa.
Finora erano stati sequenziati solo cinque genomi neanderthaliani, ma solo uno aveva prodotto dati di alta qualità, si tratta del genoma di un individuo scoperto in Siberia e noto come “Neanderthal dell’Altai”. Tre genomi meno definiti provengono da individui trovati nella stessa grotta di Vindija, e uno dalla grotta di Mezmaiskaya, in Russia.
Oltre a rivedere il contributo neanderthaliano al nostro genoma, i risultati ottenuti da Kay Prüfer, Svante Pääbo e colleghi dal sequenziamento della donna Neanderthal, illustrati su “Science”, confermano quanto già suggerito dal genoma neanderthaliano dell’Altai; innanzitutto la presenza di varianti genetiche neanderthaliane nel genoma degli esseri umani che controllano il fototipo (colorito di carnagione, capelli, occhi, facilità di abbronzatura, tendenza alle scottature solari) e la sintesi della vitamina D.
Alcune delle varianti diffuse fra i Neanderthal, funzionali allo stile di vita e alle condizioni ambientali dell’epoca in cui sono vissuti, oggi nel nostro genoma sono diventate mal adattive, ossia un fattore di svantaggio, rendendo più probabile lo sviluppo di malattie legate al metabolismo dei grassi, all’accumulo di grassi viscerali e ai disturbi alimentari. Altre varianti ancora appaiono legate all’aumento del rischio di schizofrenia e a una ridotta risposta ai farmaci antipsicotici. (Va rimarcato che tutte queste patologie non sono una “eredità dei Neanderthal”, ma che le varianti geniche di origine neanderthaliana semplicemente aumentano il rischio di svilupparle.)
neand 2Il confronto fra il genoma della donna sequenziato da Prüfer e colleghi e gli altri genomi neanderthaliani disponibili ha inoltre stabilito che i Neanderthal vivevano in piccoli gruppi isolati ciascuno con una popolazione non superiore ai 3000 individui. Ma ha anche smentito che fra di essi fosse diffusa l’endogamia, e in particolare l’incesto, come era stato ipotizzato in seguito all’analisi del Neanderthal dell’Altai, che fu probabilmente, osservano gli autori, un caso isolato.
L’influenza dei geni neanderthaliani sulla variabilità dei fenotipi (ossia del complesso di tratti che caratterizzano un soggetto) umani moderni è confermata anche da un’altra ricerca, pubblicata su “The American Journal of Human Genetic”. Questo secondo studio è stato effettuato sempre al Max-Planck-Institut per l’antropologia evolutiva, da Michael Dannemann e Janet Kelso, ma con metodi in parte differenti, e centrato sul confronto fra genomi antichi e moderni, in particolare con la ricerca sistematica di varianti geniche tipicamente neanderthaliane nel genoma di 112.000 individui moderni.
Questo secondo studio ha peraltro mostrato che nelle popolazioni neanderthaliane era già presente una significativa variabilità di tratti, per esempio quella del colore dei capelli, che dovevano andare dal biondo al castano chiaro e scuro fino al nero; singolarmente non sono state trovate varianti genetiche neanderthaliane legate ai capelli rossi, anche se, considerata la scarsità di materiale genetico disponibile, non si può escludere che fra di essi fosse presente, sia pure con frequenza molto bassa.
Le analisi hanno peraltro svelato che il flusso genetico fra questi nostri antichi cugini e l’uomo moderno non andò in una direzione sola, dai Neanderthal agli umani moderni, ma che in un passato remoto, prima di 145.000- 130.000 anni fa, ci fu un passaggio di geni nella direzione inversa, dagli umani moderni al lignaggio neanderthaliano.

Fonte: www.lescienze.it, 6 ott 2017

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