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GEORGIA (U.S.A.). Il cranio che sta rivoluzionando la storia dell’uomo.

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12809-28Un fossile ritrovato in Georgia accende il dibattito tra gli studiosi: gli ominidi di 1, 8 milioni di anni fa appartenevano tutti alla stessa specie?
Prima un albero, poi un cespuglio e adesso un ramoscello striminzito. Potrebbe essere questa l’ultima versione dell’abusata metafora che descrive il cammino dell’evoluzione umana. Come riferisce un articolo pubblicato oggi sulla rivista Science, infatti, David Lordkipanidze e i suoi colleghi che studiano i preziosi fossili umani di Dmanisi, in Georgia, risalenti a un milione e 800.000 anni fa, hanno avanzato una proposta che stravolgerebbe tutto lo schema della nostra evoluzione, almeno negli ultimi tre milioni di anni.
Secondo l’idea del cespuglio avanzata da Stephen Jay Gould, il modello più accreditato dell’evoluzione umana vuole che molte specie siano convissute, lungo i 5-7 milioni di anni in cui ci siamo separati dalla linea evolutiva degli scimpanzé. In particolare, a partire da circa tre milioni di anni fa sarebbero stati presenti, più o meno contemporaneamente, tre nostri parenti, Homo habilis, H. rudolfensis e H. ergaster, vissuti tutti in Africa. A cui poco dopo, per i tempi dell’evoluzione, si sarebbe aggiunto Homo erectus.
Erano state le notevoli differenze morfologiche dei fossili più antichi, scoperti in luoghi distanti e riferiti a epoche diverse, a spingere gli antropologi ad attribuirle a specie differenti.
Lì in mezzo, tra i tre antenati più vecchi e H. erectus, si era collocato Homo georgicus, l’uomo di Dmanisi, dove Lordkipanidze e colleghi raccolgono reperti da più di vent’anni, cercando di ricostruire la storia di quella sorprendente popolazione umana, la più antica fuori dall’Africa, che abitava tra le montagne del Caucaso. La fortunata caccia al tesoro dei georgiani ha permesso di mettere insieme una collezione di cimeli senza uguali. Ci sono i crani di almeno cinque individui, diversi per sesso e per età ma decisamente contemporanei: un maschio anziano e privo di dentatura, due maschi maturi, una giovane donna e un adolescente di sesso ignoto.
Ed è l’ultimo cranio studiato, Skull 5, ad aver messo la pulce nell’orecchio agli studiosi georgiani e ai loro colleghi di Harvard, dell’Università di Tel Aviv e dell’Istituto di antropologia di Zurigo che firmano l’articolo pubblicato su Science. A differenza degli altri quattro, Skull 5 – il più completo cranio così antico del genere Homo mai scoperto – presenta caratteristiche primitive. Ha una scatola cranica piccola, il volto allungato, la mascella superiore quasi scimmiesca, grandi denti. Tutti elementi che rimandano alle antiche specie africane. Gli altri crani, invece, mostravano caratteristiche che richiamavano quelle del più moderno Homo erectus, asiatico.
Così, il gruppo di Lordkipanidze ha usato la TAC e sofisticati modelli tridimensionali al computer per confrontare i suoi fossili. E ne ha concluso che, per quanto quelle ossa appaiano molto diverse, le loro differenze non sono superiori a quante se ne troverebbero confrontando cinque esseri umani moderni, o cinque scimpanzé. Tanto basta a confermare che i cinque individui di Dmanisi appartengano alla stessa specie, come faceva pensare anche il fatto che siano stati scoperti nello stesso luogo e nello stesso strato, e dunque che fossero contemporanei.
Questo risultato riapriva la domanda fondamentale: dato che presentano caratteristiche antiche e moderne al tempo stesso, a quale specie vanno attribuiti gli umani di Dmanisi? Per risolvere l’enigma, gli studiosi hanno eseguito a stessa analisi statistica sui dati relativi a reperti di Homo erectus, H. rudolfensis e H. ergaster, per arrivare a una conclusione inquietante, almeno per le convinzioni radicate della comunità scientifica: le variazioni di quei fossili – non molto differenti da quelle dei “cinque di Dmanisi ” – non indicano che appartenessero a specie diverse. Anzi, la loro variabilità è perfettamente compatibile con l’appartenenza a una stessa specie. Se questa ipotesi fosse accolta con favore, quest’unica specie prenderebbe il nome di Homo erectus, il primo a essere scoperto, nell’isola di Giava, nel lontano 1891. Mentre quello che oggi è chiamato H. ergaster ne sarebbe al massimo una sottospecie, H. erectus ergaster. E ancora più complicato sarebbe il destino dei fossili georgiani, la cui popolazione diventerebbe H. erectus ergaster georgicus.
Per il momento l’articolo di Science ha fatto scoppiare una bomba nel piccolo universo degli antropologi, come riconosce Philip Rightmire, uno degli autori dello studio. Secondo Ian Tattersall, dell’American Museum of Natural History di New York, sono i crani di Dmanisi che invece potrebbero corrispondere a più di una specie. E mentre Ron Clarke, altro paleoantropologo di fama dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, suggerisce che Skull 5 somigli a Homo habilis, Fred Spoor del Max-Planck Institut di Lipsia, sostiene che sia sensato chiamarlo Homo erectus. Non fa azzardi invece Tim White, che già una decina d’anni fa dall’Università della California aveva proposto dare dare una sforbiciata alle innumerevoli specie che andavano affollandosi sul cespuglio dell’evoluzione umana, limitandosi a sottolineare l’eccezionalità di una così ricca collezione di fossili antichi da un unico sito.
“I fossili di Dmanisi – spiega Giorgio Manzi, dell’Università di Roma “La Sapienza”, il cui nuovo libro Il grande racconto dell’evoluzione umana sarà in libreria a giorni – portano con sé eredità del passato e caratteri di forme che si sarebbero evolute nel futuro. Quel sito è una specie di “ombelico del mondo” del Pleistocene. E la loro eccezionale variabilità rappresenta una specie di instabilità morfologica”. Siamo passati, insomma, da una fase in cui i cambiamenti più evidenti riguardavano la postura bipede a una in cui riguardano il cervello, e le notevoli differenze dei crani di Dmanisi testimoniano soltanto una transizione.
Ma il dibattito è solo all’inizio, e purtroppo non potrà beneficiare dell’unico strumento che risolverebbe la questione una volta per tutte, l’analisi del DNA. “Con la sola morfologia – dice Gianfranco Biondi, dell’Università dell’Aquila – non è facile rispondere a questi interrogativi. E per il momento non siamo in grado di estrarre il DNA dalle ossa come è stato fatto per le forme antiche di Homo sapiens e i Neandertal. Per ora non abbiamo la tecnologia per andare oltre 150.000 anni fa”. In altre parole, dobbiamo aspettare. A meno che altre scoperte non tornino a infiammare il dibattito tra gli antropologi.

Autore: Marco Cattaneo

Fonte: http://www.nationalgeographic.it , 27 ott 2013

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