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SUD AFRICA. Pittura, attrezzi e conchiglie: la bottega d’arte paleolitica.

Un antichissimo “laboratorio artistico” con tracce di pittura, strumenti per estrarre e mescolare pigmenti colorati, contenitori per conservarli, lasciati insieme come se fossero stati abbandonati ieri: è un piccolo tesoro, sorprendentemente completo, quello emerso dalla grotta di Blombos, uno dei siti archeologici più ricchi del Sud Africa. E rivela come già 100mila anni fa i nostri antenati fossero in grado di produrre colori liquidi, partendo dall’ocra, da applicare poi sul corpo o da destinare ad altri usi, forse anche decorativi. Ma, soprattutto, come sapessero conservarli per poi riutilizzarli, sfruttando come contenitori le conchiglie.
Il professor Christopher Henshilwood, dell’Istituto per l’evoluzione umana dell’università di Johannesburg, insieme ad altri colleghi fra cui l’italiano Francesco d’Errico – da anni emigrato a Bordeaux – descrivono su Science i due kit di attrezzi per la pittura scoperti l’uno accanto all’altro nel 2008 nel sito sudafricano.
La pratica di produrre della povere di ematite sfregandola su una pietra per ottenere un pigmento colorato era comune in Africa e nel vicino oriente in tempi più recenti rispetto a 100mila anni fa ed è ben documentata a partire da 60mila anni fa, anche se sono stati trovati reperti anche molto più antichi. Ciò che rende questo ritrovamento speciale, spiega il dottor d’Errico, direttore di ricerca al CNRS dell’università di Bordeaux e professore all’università di Bergen, è la sua ricchezza ed il fatto di aver rinvenuto due kit coevi e quasi intatti, il che permette di far luce sull’intero procedimento, partendo da ogni singolo strumento.
Accanto alle due conchiglie di Haliotis, o orecchie di mare, che servivano da recipiente sono stati rinvenuti “frammenti di ematite con tracce di abrasione e scheggiatura, schegge di quarzite con tracce di pigmento, una placchetta di quarzite con strisce di colore prodotte dallo sfregamento dei frammenti di ematite, una scapola di foca con residui di pigmento, una vertebra e un piccolo osso di carnivoro”, ricostruisce lo scienziato. Uno dei due kit è più completo, l’altro è formato solo dalla conchiglia, un pezzo di quarzite e un frammento di ematite, ma è molto interessante perché contiene pigmenti diversi, indicando così che gli strumenti venivano usati diverse volte.
L’analisi dei reperti, datati con la tecnica della luminescenza stimolata otticamente e dell’uranio/torio, ha richiesto anni e l’uso di tecniche e strumenti molto sofisticati, oltre che una collaborazione internazionale, ma ha permesso di svelare ogni singolo passaggio: “L’artigiano grattugiava l’ematite su una placchetta di quarzite o la scheggiava per produrre piccole schegge” spiega d’Errico. “Successivamente, le scheggette così ottenute venivano macinate con un ciottolo o con grandi frammenti di quarzite. Il procedimento produceva secondo l’ocra utilizzata una polvere rossa o gialla che veniva combinata nelle conchiglie a midollo osseo liquefatto al calore. A questa mescola veniva probabilmente aggiunta acqua”.
Per conservarlo il contenuto veniva protetto con un coperchio: nel kit meglio conservato l’apertura della conchiglia era protetta da un ciottolo che combaciava perfettamente con la forma della conchiglia. I ricercatori ipotizzano anche che i buchi per la respirazione del mollusco visibili sulla conchiglia venissero ostruiti per non far colare il liquido. Per mescolare e trasferire il colore fuori dal contenitore, probabilmente si usava un osso.
“Parlare di laboratorio è forse troppo, ma si può pensare ad un artigiano e quasi vederlo mentre applica la sua ricetta, con la pila di oggetti lasciati lì pensando di tornare dopo una settimana per riutilizzare la pittura”.
Gli oggetti restituiscono moltissimi particolari: “Le strie lasciate sul fondo della conchiglia dal movimento delle dita durante la mescola del pigmento rappresentano la più antica traccia del gesto di un artigiano o forse di un artista preistorico”, aggiunge d’Errico, “senza contare che questi sono attualmente i primi contenitori conosciuti”.
Per cosa venisse usata la pittura è un mistero: forse era impiegata per coprire superfici per proteggerle o decorarle, o ancora, per creare disegni o motivi ornamentali, o per coprire il corpo, azzardano gli scienziati. Di sicuro la produzione non era un evento isolato perché i kit venivano riutilizzati. E proprio il fatto che i pigmenti venissero usati diverse volte indica che avessero un’importanza particolare nella cultura. “Anche nelle popolazioni umane attuali l’uso del pigmento non è mai esclusivamente utilitario, ma ha anche una valenza simbolica, se si vuole artistica”, spiega ancora d’Errico.
Secondo gli autori dello studio, l’abilità concettuale di combinare e conservare tali sostanze segna un punto critico nell’evoluzione del pensiero umano e testimonia “un precoce sviluppo tecnologico e comportamentale di Homo Sapiens”, documentandone sia una conoscenza di base della chimica che la capacità di pianificare a lungo-termine. “E’ un passaggio chiave nell’evoluzione delle capacità cognitive complesse nell’uomo, poiché dimostra che si aveva già l’abilità concettuale di trovare, combinare e immagazzinare sostanze che poi potevano essere utilizzate nelle pratiche sociali”, conclude il professor Henshilwood.

Autore: Alessia Manfredi

Fonte
: Repubblica.it, 13 ottobre 2011.

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