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ROMA. Tutti i più grandi musei del mondo sono pieni di manufatti che provengono dall’Etruria.

Una ventina di necropoli etrusche, sparse in tutto l’antico territorio dell’Etruria, hanno restituito alla luce superbi esempi di questa antica civiltà. Eppure, gli Etruschi restano ancor oggi una delle più misteriose civiltà del passato. Quali ne sono le cause? Perché, a esempio, si conoscono la struttura e il funzionamento dell’antica società egiziana, pur molto più remota, in maniera di gran lunga superiore rispetto a quanto si sia riuscito a sapere in merito agli Etruschi, che pure fanno parte della cultura occidentale e che avevano avuto, per giunta, anche attivi rapporti commerciali con gli stessi Egiziani?
La spiegazione essenziale, in questa complessa storia, sta nella difficoltosa decifrabilità della loro lingua e nel fatto che nessuno ha finora trovato il corrispondente di una stele di Rosetta a beneficio degli Etruschi. Difatti, fino all’inizio dell’Ottocento, la scrittura dell’antico Egitto era anch’essa un libro chiuso, perché gli studiosi non erano stati in grado di decifrare i geroglifici egiziani. La celebre stele di basalto nero trovata nella zona del Delta del Nilo, a nord di Rosetta, nel 1799 (da soldati francesi della spedizione napoleonica), conteneva una lunga iscrizione incisa in geroglifici assieme a una traduzione, degli stessi geroglifici, in greco e in demotico. Quando, nel 1822, l’egittologo francese Jean-Francois Champollion (1790-1832) pubblicò la sua scoperta dimostrando il rapporto diretto tra il testo greco, di facile lettura, e i geroglifici, gli studiosi di tutto il mondo poterono finalmente svelare i misteri della millenaria civiltà egiziana.
Niente del genere è stato trovato per quanto concerne la lingua etrusca. Si è in possesso di un gran numero di iscrizioni, per lo più funerarie, semplici nomi e titoli, in genere, delle persone da commemorare, e gli studiosi sono ormai in grado di leggere e di comprendere un certo numero di parole, scritte in un alfabeto che assomiglia a quello greco. Ma non si riesce a interpretare la struttura e la sintassi del linguaggio, che sembrano non avere nulla in comune con la stessa lingua greca o con quella latina.
Tuttavia, qualora gli esperti riuscissero a trovare la chiave della lingua etrusca, la scarsa quantità di materiale scritto che si è conservato fino a oggi, non potrebbe, comunque, fornirci molte informazioni sulla vita quotidiana degli Etruschi, però potrebbe rivelarci indizi interessanti sui legami con le altre lingue del mondo antico, fornendo, se non altro, le tracce per risalire al luogo d’origine degli Etruschi, cosa su cui nemmeno gli stessi antichi erano d’accordo.
C’è, soprattutto, un documento che gli etruscologi vorrebbero decifrare, poiché esso fa sperare nella possibile scoperta di qualche particolare della vita etrusca che non sia prettamente funerario. Si tratta di un lungo testo che, verso la fine dell’Ottocento, venne trovato nei bendaggi di una mummia, portata in Europa dall’Egitto, a opera di un funzionario dell’ambasciata austro-ungarica, come ricordo dei suoi viaggi in Medio Oriente; ovviamente il diplomatico pensava di aver trafugato solo un importante reperto archeologico egizio e non anche un prezioso documento etrusco. La cosa venne alla luce solo dopo la morte del funzionario, poiché la mummia venne trasferita al Museo di Zagabria, dove venne sfasciata, il che portò alla scoperta dello scritto etrusco nella parte più interna del bendaggio.
Gli studiosi ci misero anni per capire che si trattava di un testo etrusco, poiché la provenienza della mummia, faceva pensare, ovviamente, a una lingua di origine egiziana. Quando, finalmente, nel 1892, un gruppo di esperti tedeschi riconobbe il testo come etrusco, lo scritto rivelò 216 righe di testo, che apparivano come una sorta di trattatello religioso.
Noto come il Libro della Mummia, lo scritto era palesemente solo un estratto di un’opera più vasta. Gli esperti, dopo aver esaminato sia la mummia che i tessuti, ritennero che la salma, appartenente a una giovane donna, poteva non essere etrusca, ma che le bende in cui era stata avvolta erano state tagliate da una pezza di stoffa, sulla quale erano state scritte le parole del testo in patria, prima di venire portata in Egitto da mercanti etruschi.
Gli imbalsamatori egiziani, difatti, non badavano alla provenienza delle bende che si procuravano per avvolgere i defunti. Nonostante anni di approfonditi studi sull’enigmatico documento, nessun filologo è ancora riuscito a decifrarlo, per il semplice fatto che una lingua sconosciuta la si può decodificare soltanto se è possibile metterla a confronto con un’altra già conosciuta.
Nel 1964, il professor Massimo Pallottino, grande esperto di etruscologia, riportò alla luce tre tavolette d’oro, nel corso di scavi compiuti nei pressi di un tempio etrusco dell’antica Pyrgi (l’odierna Santa Severa), vicino a Roma. Due delle tavolette erano incise in etrusco e la terza in punico, la lingua dei Fenici (e dei loro coloni cartaginesi), già conosciuta dai linguisti.
Forse si stava sciogliendo l’enigma? Il testo punico era una versione letterale di uno o di entrambi i testi etruschi? Dopo mesi di attesa e di speranza, durante i quali gli studiosi lavorarono febbrilmente per confrontare il punico, subito decifrato, con l’etrusco sconosciuto, venne la delusione: le tavolette d’oro erano una scoperta affascinante, ma non consentivano di capire il rapporto fra le due lingue; pur trattando probabilmente lo stesso argomento, il punico non era la versione esatta dell’etrusco. Inoltre, il testo era comunque troppo breve per trarne indicazioni sulla grammatica della lingua perduta.
Si continua, quindi, a sperare in una fortunata scoperta, una specie di nuova stele di Rosetta, che sveli i misteri del Libro della Mummia. Non è affatto da escludere, infatti, che tale chiave esista, in qualche parte del sottosuolo italiano.


Fonte: Il Tempo 12/11/2007
Autore: Mario Leocata
Cronologia: Arch. Italica

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