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NAPOLI. Villaggi preistorici, dalla rinascita all’oblio.

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Se in un piccolo centro del Nord Europa viene per caso dissotterrata una trave di legno marcito che si possa credibilmente attribuire ad un’imbarcazione vichinga, subito intorno all’area del ritrovamento si affrettano ad allestita la fedele riproduzione di un antico villaggio degli eroici guerrieri-navigatori, e i turisti giungono a frotte.
Volendo rimanere in Italia, c’è l’ottimo esempio del comune di Lusiana, nel vicentino, dove sono affiorati recentemente alcuni strani manufatti. Prima ancora di accertare l’origine preistorica degli oggetti, già erano sorte dal nulla capanne e palafitte e le famiglie hanno affollato il sito, potendo fruire anche di visite guidate.
Quando scendiamo in Campania, però, le cose cambiano.
Nell’ultimo decennio sono stati scoperti ben due villaggi preistorici, dai quali sono affiorati migliaia di preziosi reperti. Ebbene, quante persone ogni giorno possono visitare queste aree di particolare interesse storico e scientifico? Risposta scontata: nessuna. Uno dei siti, infatti, sta affondando lentamente in una palude, l’altro è da anni in attesa che riprendano gli scavi, interrotti per mancanza di fondi.

Ripercorriamo allora le storie parallele di questi due luoghi che stanno seriamente rischiando, dopo una breve rinascita, di tornare nell’oblio.
Il Villaggio preistorico di Nola ha rivisto la luce nel 1999, durante i lavori per la costruzione di un centro commerciale. Si tratta di uno straordinario sito archeologico dell’Età del Bronzo Antico, seppellito dalla pioggia di ceneri e lapilli scatenata dall’eruzione del Vesuvio (1860-1680 a.C.).
L’eccezionalità del luogo è dovuta al fatto che le capanne, sepolte dal materiale vulcanico, si sono conservate attraverso il loro calco nel fango e nella cenere che le ha imprigionate, sigillando anche tutte le suppellettili che si trovavano al loro interno nel momento del disastroso evento.
Gli esperti ne parlano come di una vera e propria “fotografia” di una laboriosa comunità dell’epoca, un nitido frammento di vita preistorica vecchio di 4000 anni.
Dal giorno della sua scoperta, il sito è stato curato esclusivamente  dai volontari dell’associazione culturale Meridies, che hanno assicurato le operazioni di pulizia  e, in passato, l’apertura domenicale al pubblico.
Nel 2006, dopo una tortuosa procedura burocratica, la Regione Campania ha acquistato da una società privata i suoli, pagando 715 mila euro. L’obiettivo era di  consentire alla Soprintendenza di sviluppare il progetto di realizzazione del Parco archeologico, che prevedeva anche l’allestimento di un museo all’aperto, con la ricostruzione delle tre capanne rinvenute nell’area, una sala convegni e strutture destinate ad attività scientifiche e didattiche.
Progetto rimasto sulla carta, anche perché nulla si può realizzare se non si procede alla bonifica del terreno paludoso che minaccia la stessa esistenza del sito. In questi anni Meridies ha speso diverse migliaia di euro per interventi di risanamento della falda acquifera con l’utilizzo di pompe idrovore. Ma nonostante l’impegno, il Villaggio è ormai costantemente ricoperto di acqua e fango.
Solo un intervento radicale potrebbe risolvere il problema. Gli appelli alle istituzioni dei volontari nolani fino ad oggi hanno ottenuto, in concreto, solo il contributo di 750 euro che nel 2007 è stato generosamente elargito dalla Andante Travels, agenzia londinese (!) specializzata nel turismo archeologico.
“Eppure quando siamo riusciti ad assicurare l’apertura domenicale del villaggio – spiega Angelo Amato de Serpis, presidente di Meridies – questo ha riscosso un enorme successo da parte del pubblico: oltre 12.000 visitatori hanno affollato il sito di Croce del Papa e numerosi sono stati i gruppi stranieri provenienti dalla Germania, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e da diverse altri paesi. Purtroppo, però, noi siamo allo stremo, il sito ha bisogno di continue manutenzioni e fondi e, a parte l’aiuto di qualche privato, non abbiamo ricevuto quasi alcun supporto dagli enti pubblici”.

E’ una difficile convivenza con l’acqua anche quella del villaggio protostorico di Longola a Poggiomarino, scoperto nel 2000 sotto una falda idrica profonda cinque metri presso le rive del Sarno.
Mentre gli operai del Comune stanno costruendo un impianto di depurazione del fiume, si imbattono in alcuni reperti archeologici. Accorsa sul luogo, la Soprintendenza dà subito il via ai sondaggi conoscitivi: si tratta dei resti molto ben conservati di un villaggio palafitticolo che presenta tracce di attività umana risalenti a 3.500 anni fa. Un piccone di legno, una capanna ritrovata con le pareti crollate, un telaio e delle figurine di ceramica che rappresentano immagini femminili in forma stilizzata, sono alcuni tra gli oggetti rinvenuti.
L’insediamento era abitato dalla popolazione dei Sarrasti, una comunità dedita principalmente al commercio e alla produzione artigianale e di gioielli. Ma è la struttura del Villaggio, vasto più di 7 ettari, a renderlo un sito unico.
“Le palafitte ritrovate – spiega la responsabile scientifica dello scavo, Claude Albore Livadie – sono infatti costruite su isolotti ricavati tra i canali artificiali di un’area paludosa bonificata dagli indigeni. Certamente la più importante scoperta nell’Italia del sud per la conoscenza di quel periodo storico”.

Nel luglio del 2003, il Commissario di Governo per l’emergenza Sarno decreta lo stop delle attività per la costruzione del depuratore, rendendo disponibile l’area per le ricerche archeologiche.
I primi scavi portano alla luce più di mezzo milione di reperti ceramici, di oggetti in bronzo, ambra, ferro, piombo e osso. Un lavoro accompagnato dall’incessante azione delle idrovore che aspirano l’acqua proveniente dal fiume, unico modo per rendere il sito accessibile e pulito.
Fino all’inizio del 2007 la Soprintendenza archeologica di Pompei investe 5,5 milioni negli interventi di recupero. Ma il taglio imposto ai Beni Culturali con la Finanziaria 2007, fa sentire i suoi effetti sul Villaggio di Poggiomarino: lavori sospesi, in attesa di nuovi stanziamenti.
Un’attesa che, nell’indifferenza delle istituzioni locali, si è protratta fino ai giorni nostri e che fa apparire sempre più come un miraggio il progetto per la trasformazione delle enormi vasche di cemento, originariamente costruite per il depuratore, in museo e laboratorio per la conservazione dei reperti rinvenuti.
Linda Solino, direttrice di “Terramare 3000”, associazione di volontari nata per valorizzare il sito di Longola, sottolinea l’importanza della salvaguardia dei preziosi legni  protostorici  per  la  futura  fruizione.  
Il nostro gruppo – spiega la Solino  – a tal scopo aveva proposto alla Soprintendenza ed alle istituzioni locali il progetto di una Cittadella dell’Archeologia. Questo prevedeva la ricostruzione a grandezza naturale di uno spaccato del Villaggio per dare un’idea precisa di come erano il fiume Sarno e gli insediamenti lungo le sue rive nel periodo protostorico”.

Nel frattempo anche oggi, a Lusiana, hanno fatto il pienone.

Autore: Marco Molino

Fonte: Napoli.com, 17/05/2010

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