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MILANO. Così creiamo batteri per pulire i monumenti.

Ha compiuto ieri 36 anni, ma è praticamente dal 1990 che studia i batteri e le loro azioni, positive e negative, sulle opere d’arte. Francesca Cappitelli, laureata da 110 con lode in Agraria all’Università di Milano, oggi è ricercatrice nella stessa facoltà. Ha una passione per i microorganismi, specie quelli che possono essere utili all’uomo.
«Sono moltissimi anni che “schiavizziamo” i batteri: basti pensare ai processi di produzione della birra, del vino o anche del pane. La tecnologia -spiega Cappitelli – però ci ha aperto nuovi orizzonti e con i batteri che hanno una vena artistica per me è stato amore a prima vista. Il titolo della mia tesi di laurea era “Indagini micro-biologiche, calorimetriche e molecolari per l’identificazione e lo studio di microorganismi deteriogeni dei manufatti artistici”».

Negli ultimi anni Francesca ha fatto parte delle squadra della professoressa Claudia Sorlini, microbiologa, e ha studiato i batteri che, anziché deteriorare i monumenti, possono aiutare a conservarli.
L’università di Milano ha partecipato, insieme ad altri cinque atenei europei, a Bio-brush, acronimo di “Bioremediation for Building Restoration of the Urban Stone Heritage“, un progetto di ricerca triennale, finanziato dall’Unione europea. Sì è concluso nell’estate scorsa, dopo aver dimostrato che i batteri sono bravissimi a pulire i monumenti. «Riescono a rimuovere le incrostazioni saline e altre alterazioni da chiese, palazzi e statue», spièga Francesca.
E parla per esperienza: il 19 settembre, con il permesso della Veneranda Fabbrica del Duomo, la ricercatrice si è arrampicata sulla cattedrale insieme a restauratori e colleghi, come Giancarlo Ranalli dell’università di Matera, e chimici dell’Istituto per la conservazione e valorizzazione dei beni culturali. L’obiettivo era una lunetta di circa 60 centimetri per 40, con ornamenti incrostati di sporco nero e sicuramente tenace. Sul marmo era stata prima stesa una sottile carta giapponese, sopra la carta il gel con i “batteri spazzini” distribuiti con una spatola di legno e quindi ricoperti di polietilene per evitare l’evaporazione. Senz’acqua infatti i microorganismi sarebbero morti prima di riuscire a completare l’opera di pulizia.
Un impacco tradizionale usato dai restauratori – a base di acido etilendiamminicotetracetico (Edta) e carbonato d’ammonio – era stato applicato a una lunetta analoga che sarebbe servita da confronto. Durante i controlli a 24 e 36 ore di distanza, i batteri furono dichiarati vincitori all’unanimità: anche un restauratore ammise che erano molto più rispettosi della grana del marmo dell’impacco chimico.
Biobrush è finito, ma ci sono nuovi progetti: «Lavoriamo sul filone della conservazione, vorremmo riuscire a creare dei batteri che ci aiutino ben oltre la pulizia».

Ai finanziamenti europei se ne sono sostituiti altri? «Il tasto dei fondi è sempre dolente. Non sono mai abbastanza e a volte siamo costretti a fermarci perché le risorse non sono sufficienti. Ma questo è il problema di tutti i ricercatori puri.»

La soddisfazione è la stessa di quando ha iniziato? «Un lavoro come questo si può fare solo per passione, non certo con una motivazione economica. Io sono l’unica persona in Italia che si dedica a tempo pieno alla ricerca sui microorganismi e le loro interazione con i beni culturali. E sono molto felice».

 


Fonte: Il Sole – 24 Ore 16/11/2007
Autore: Giulia Crivelli

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