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Mario Zaniboni. Monolito di Pokotia. Un manufatto fratello del vaso fuente.

pokotia

Nel 1960, durante una sessione si scavi effettuata a Pokotia, una località a un pugno di chilometri dal sito archeologico precolombiano di Tiahanaco, uno dei più grandi della America del Sud, sito presso il Lago Titicaca e distante una settantina di chilometri da La Paz, venne alla luce una statua di pietra alta un metro e settanta centimetri, a forma umanoide, ricoperta da incisioni. Sono iscrizioni e motivi incisi sia sulla sua parte anteriore, sia su quella posteriore. Il reperto, chiamato “Monolito di Pokotia” o “Monumento di Pokotia” fu a lungo conservato in Bolivia senza che nessuno si interessasse ad approfondirne la conoscenza, anche perché nessuno ne aveva riconosciuta l’importanza, ritenendolo un ritrovamento ordinario.
Dal punto di vista dell’epoca in cui la statua sia stata scolpita non c’è convergenza fra i vari studiosi, giacché alcuni sono convinti che risalga al 1600 a.C., altri al 2000 a.C., mentre altri ancora suppongono che la nascita della civiltà relativa sia avvenuta addirittura attorno a diecimila anni prima di Cristo. Comunque, qualcuno ritiene che possa essere contemporaneo della civiltà sumerica, vale a dire attorno al 2350 a.C.
Solamente nel 2001 – così pare – il monolito è stato preso nella giusta considerazione dallo studioso e archeologo Bernardo Biados, che li ha fotografati.
Nel 2002, poi, alcuni ricercatori, fra i quali era lo stesso Biados e il collega Freddy Arce, che insieme avevano studiato il Vaso Fuente o Fuente Magna (pure questo un oggetto antico molto particolare), lo esaminarono nel Museo de Metales Preciosos a La Paz, dove era conservato, e cercarono di approfondirne la conoscenza, riuscendo a individuare altre incisioni, sfuggite in precedenza. Queste furono analizzate da un gruppo di epigrafisti (esperti nella lettura di iscrizioni incise nelle pietre ornamentali o nel bronzo), che giunsero alla conclusione che di una forma di scrittura criptografica si trattasse. Lo statunitense epigrafista, antropologo e storico Clyde Winters, che ha studiato profondamente le iscrizioni del monolito, ha affermato di essere del tutto convinto che le incisioni sulla statua abbiano le caratteristiche di una scrittura sumerica antica, ciò evidenziato in particolar modo dalle iscrizioni incise sulle mani e nel retro del monolito; e che questo sia l’Oracolo di Putaki, padre della saggezza e beneficio per tutti e ricalca l’idea della scrittura sumerica antica.
Questa è la traduzione di Winters dello scritto sulle mani: “L’oracolo Putaki conduce l’uomo alla verità. Questo oracolo stimato e prezioso per il germogliare della saggezza, ora testimonia la sua dipartita”. Quella dello scritto sulla parte posteriore della statua dice quanto segue: “La norma ideale è quella dell’Oracolo di Putaki. Questo Oracolo si trova in una zona di straordinario potere della divinità. Annunziate a tutta l’umanità il decreto divino”.
In definitiva, sembra di poter dire che l’Oracolo di Putaki fosse di estrema importanza per la comunità, come punto di riferimento per la verità e la gioia. Già, ma chi era Putaki? Nello scritto, Putaki è presentato come il “padre della saggezza”. Un personaggio fantastico o un antenato veramente vissuto? Nessuna risposta è disponibile.
E naturalmente, mettendo insieme il Monolito di Pokotia e il Vaso Fuente, le cose tendono a complicarsi, per ciò che riguarda la similitudine di scritti stilati a distanza di migliaia di chilometri, quando nel Mondo Antico di quello Nuovo Mondo non si supponeva nemmeno l’esistenza.
Possibile che i Sumeri siano approdati sulle sponde dell’America del Sud e l’abbiano attraversata per arrivare ai 3.800 metri di quota del Lago Titicaca, quasi alle soglie dell’Oceano Pacifico? E a quale scopo? Esplorazione voluta o capitata per un caso indesiderato? Bernardo Biados ha formulato un’ipotesi di come possa essersi svolta la vicenda: un gruppo di Sumeri, imbarcato su una flotta di navi, lasciata la Mesopotamia, ha circumnavigato l’Africa e, attraversato l’Oceano Atlantico, forse trascinato fuori rotta da tempestosi venti fuori controllo cui non è stato possibile opporsi, è sbarcato sulle coste, ora brasiliane, nella sua totalità o solamente in parte; dopodiché, non potendo più ritornare indietro, ha proseguito il suo viaggio attraversando il continente, approfittando della navigabilità dei fiumi, per pervenire fino lassù, fra le nuvole delle Ande. E laggiù ha lasciato qualche traccia o segnale che lo ricorda.
Però permane anche un altro dubbio: le imbarcazioni sumeriche, che potevano navigare con sicurezza nelle acque interne del loro paese, lo erano pure per farlo nelle sconfinate e burrascose acque oceaniche?
Naturalmente, oggi almeno, l’interrogativo non può che restare senza risposta; solamente se in una qualche ricerca archeologica futura nei due Mondi emergerà qualche indicazione o reperto che possa chiarire definitivamente come siano veramente avvenuti i fatti raccontati, si potrà mettere una croce su ciò che ora non può che essere definito un OOPArt nel vero senso della parola.

Autore: Mario Zaniboni – m.zaniboni@virgilio.it

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