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La Via Appia: un miglio pieno di storia.

Il primo miglio della via Appia a Roma, originariamente extraurbano, entrò a far parte della città murata quando venne eretta la cinta di Aureliano, nel III secolo d.C. Oggi è uno dei settori piú affascinanti della città moderna, un sito talmente carico di storia da esserne quasi saturo, tanto da poter essere percorso distrattamente, ignari – potremmo dire – della sua identità. Sulla grande strada animata che conduceva al Sud della Penisola, fin dall’antichità sorsero templi ed edifici pubblici, mausolei grandiosi e sepolcri collettivi, frammisti a case, orti e giardini.Nel corso dei secoli, fuori e dentro le mura, il paesaggio è stato inghiottito dal tempo, in quella terra di tutti e di nessuno, in cui le residenze si alternavano alle necropoli, prima pagane poi cristiane, i monumenti pubblici si alternavano ai luoghi di culto, le forme dello sfruttamento agricolo dei suoli convivevano con quelle dell’abitare: residenze misere e domus aristocratiche in antico, casali e baracche di campagna tra Medioevo ed età moderna, residenze diplomatiche e infami tuguri di senzatetto nell’età della globalizzazione.
Il paesaggio spezzato
Un approccio globale al paesaggio storico del primo miglio della via Appia ci racconta la storia di un tratto di campagna, che, nella piú remota antichità, ha giocato un ruolo di interfaccia tra la città abitata e l’immediata periferia. Fuori del circuito delle mura antiche di Roma (la cosiddetta «cinta serviana»; dalla tradizionale attribuzione al re Servio Tullio, n.d.r.), una strada puntava verso quelli che un giorno sarebbero stati chiamati Castelli Romani, affiancata da tombe misere e illustri, tra orti e pascoli, e poi tra templi, terme e altri edifici pubblici, a mano a mano che la città si espandeva. Fino a che le Mura Aureliane spezzarono quel paesaggio: la via in mezzo alla campagna, divenuta città, non accolse piú sepolcreti, ma case. Fintanto che ci furono abitanti per viverle. Il paesaggio del primo Medioevo si popola di chiese, si spopola di persone, le tombe abbandonate da secoli sono luoghi di saccheggi e di paure. La campagna riconquista il paesaggio: il Medioevo la porta dentro le mura della città. E l’età moderna «fotografa» un lembo di vigne, casali e stradine che ne fissano l’immagine, con gli strumenti della cartografia storica, delle vedute artistiche e poi delle prime fotografie, come fissa è la società di nobili ed ecclesiastici che quei luoghi possiedono ma non abitano.
Scavi tumultuosi e rinascita culturale
Dopo secoli di progressiva ruralizzazione, che vide lo stabilirsi di ampi patrimoni fondiari intramuranei prevalentemente in mano ecclesiastica, una porzione di periferia urbana, o di «disabitato», ha avuto la ventura di vedere il tempo quasi fermarsi negli ultimi secoli. Ma non si deve credere che il tempo sia passato inerte su questo lembo di città: dall’abbandono di molti insediamenti, primo fra tutti quello di San Sisto Vecchio per l’impaludamento dell’area nel corso del Cinquecento, al rivolgimento del suolo causato dagli scassi per la messa a dimora delle vigne, ai tumultuosi scavi antiquari, ai momenti di rinascita culturale, come quelli suscitati dai restauri di Cesare Baronio all’inizio del Seicento o dalla riscoperta del sepolcro degli Scipioni alla fine del Settecento, sino alle odierne trasformazioni indotte dal cambio delle destinazioni d’uso e della sociologia della residenza, dalle vigne alle ville alle ambasciate.
L’evoluzione del territorio
Le trasformazioni recenti, da un secolo a questa parte, hanno profondamente modificato il paesaggio, anche se non nei termini devastanti che altri rioni urbani hanno conosciuto con la proclamazione di Roma a capitale d’Italia. La storia urbana si fa per epoche, ma, per essere meglio intesa, nessuna epoca può fare a meno delle altre: anche dell’età contemporanea. Infatti, solo a partire dal primo Ottocento, i monumenti cominciarono a essere percepiti come tema culturale, variamente coniugabile con gli assetti urbanistici prefigurati dalla modernizzazione napoleonica. All’inizio del Novecento quel tratto della via Appia è stato al centro della creazione della Zona Archeologica monumentale; lí si è svolta la vicenda, moderna e non ancora conclusa, dell’Antiquarium Comunale, oggi ridotto a rudere fatiscente. La recente restituzione all’Etiopia dell’obelisco di Axum, meglio di ogni altro piccolo o grande episodio, dimostra come nell’organizzazione e uso degli spazi, anche brevi, come quello in cui sorgeva fino a pochi anni fa l’obelisco rapinato nel 1937, si possano riflettere le trasformazioni puntuali degli equilibri che reggono l’uso del territorio e al tempo stesso le vicende della macrostoria e delle ideologie che la orientano. La comparsa effimera di quell’obelisco e la sua scomparsa sono una traccia, a tutti gli effetti archeologica, del mutare del senso e dell’identità dei luoghi.
La perdita della centralità
Come – a una scala diversa – lo sono i resti abbandonati delle balaustre allestite non piú di cento anni fa sui ponticelli della marrana scomparsa. La modernizzazione si è mescolata infatti con l’ideologia, le scenografie del regime si sono animate di traffico: l’Appia ha perso la centralità rispetto ad altre direttrici, che portavano la terza Roma verso il mare, e la Zona Archeologica ha perso il suo carattere di parco urbano. L’Italia repubblicana vi ha accolto altre forme della vita sociale e del tempo libero,mentre i parchi pubblici non servono piú dove prevalgono le ville e i parchi privati.
La storia stratificata del primo miglio della via Appia è conosciuta assai meno di quanto si pensi. Eppure, l’immagine odierna dell’area, diremmo quasi la sua pelle, si presta a tanti diversi approcci: si può partire da un dato archeologico territoriale tuttora emergente, per inserirlo nei contesti topografici e storici che lo hanno visto protagonista; oppure da un dato testuale o documentario, alla ricerca di una sua possibile restituzione nel paesaggio a ritroso nel tempo, sempre in rapporto alla via. Pensiamo, nel primo caso, ai resti antichi apparentemente anonimi adiacenti allo Stadio delle Terme o ai mulini del Semenzaio comunale, o al complesso fascinoso di S. Maria in tempulo o a quello dei Sette Dormienti, al cosiddetto Arco di Druso, alla Posterula Ardeatina, ai muri della Vigna di Porta Latina. Nel secondo caso pensiamo a monumenti perduti, come quelli noti da un cenno dell’Anonimo di Einsiedeln, come la misteriosa coclea facta, o da un disegno di Pier Leone Ghezzi. Studiandola con gli occhi della storia urbana, l’identità di questo tratto di strada scaturisce dalla comprensione del suo rapporto con la città, quindi da un approccio urbanistico, che pone in sequenza le continue trasformazioni d’uso dei suoli, che hanno sempre risentito di quello che accadeva dentro e fuori la città.
Identità dinamica e complessa
Scaturisce, ora, da un’antologia dei singoli monumenti: nuovi, come lo Stadio delle Terme, o antichi, da ricollocare nelle diverse epoche che ne hanno visto la nascita, la vita e la trasformazione in rudere. Scaturisce anche dalla capacità di guardare, quasi radiograficamente, nel corpo stesso del sedimento urbano, per scorgere ciò che c’era e non c’è piú, o piú non si vede, le tante alterità che hanno mutato negli stessi luoghi il loro stesso senso, tutte contribuendo alla costruzione della attuale identità dinamica e complessa, che – come sempre accade quando ci avviciniamo allo studio dei paesaggi urbani – non dobbiamo mettere in cornice e ammirare come un quadro, ma imparare a vivere, sentendoci partecipi di una storia che continua, e che è al tempo stesso conservazione e cambiamento.

Autore: Daniele Manacorda

Fonte: http://www.archeo.it, settembre 2010

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