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IRAQ/AFGANISTAN. Archeologia & guerriglia.

L’intervista rilasciata alla Cnn il 7 luglio scorso dal colonnello Matthew Bogdanos sulla stretta connessione tra terrorismo e traffico clandestino di reperti archeologici ha suscitato negli Stati Uniti un’ondata di indignato imbarazzo.
Il colonnello ha riferito che, mentre si occupava di anti-terrorismo in Iraq, indagando sul saccheggio del Museo Nazionale di Bagdad (2005) aveva raccolto diverse prove circa i collegamenti tra il traffico clandestino delle antichità e il rifornimento di armi ai terroristi.
I ribelli di Hezbollah e di al-Qaeda venivano finanziati sotto l’ignara copertura delle forze dell’Onu. Con disappunto il colonnello precisava che questo traffico continua indisturbato e che l’Interpol stima raggiungere un volume d’affari di alcuni miliardi di dollari all’anno.
Per la verità quelle del colonnello Bogdanos sono rivelazioni utili ma abbastanza tardive dal momento che, fin dal 2001, se ne era già occupato Le Figaro e io stesso avevo pubblicato diversi interventi al riguardo ricordando come tutto avesse avuto inizio nel 1982. Allora il mullah afgano Younus Khalis, per foraggiare il proprio esercito, aveva pensato di attaccare il palazzo della regina a Jalalabad per saccheggiarne la preziosa raccolta di arte greco-buddista del Gandhara e rivenderla ai migliori offerenti. E, per evitare possibili errori, si era fatto accompagnare da un team di rinomati antiquari che scelsero i pezzi più significativi per poi distribuirli tra i collezionisti (pubblici e privati) di Europa, Usa e Giappone.
Quando nel gennaio 1992 Usa e Ussr decisero il blocco dei finanziamenti ai “Signori della Guerra” afgani, questi si ricordarono dell’impresa del mullah Khalis e decisero di incrementare le già cospicue entrate derivate dal narco-traffico anche con il saccheggio di opere d’arte. Fu così che il mullah Ali Mazari, con l’appoggio di altri due eminenti Signori della Guerra, mise a ferro e fuoco Kabul dall’8 al 21 maggio 1995, provocando un migliaio di vittime tra i civili per razziare il Museo Nazionale e portare a termine quella che Ahmed Rashid, nel Far Eastern Economic Review, chiamò la «rapina del secolo». L’incredibile fu che il saccheggio venne orchestrato da esperti antiquari che, selezionati i pezzi più richiesti dal mercato, li imballarono e li trasferirono in Pakistan con un convoglio protetto da tutte le fazioni afgane.
Quando l’Unesco riuscì a inventariare i danni subiti dal Museo di Kabul, stabilì che erano stati trafugati ben 30.000 reperti pari ad un controvalore di diverse centinaia di milioni di dollari. Nel frattempo i mercati antiquari avevano manifestato crescente interesse per una nuova cultura del II millennio a.C. già timidamente segnalata negli anni Ottanta dai Francesi che la battezzarono Cultura Battriana. Sulla fine degli anni Novanta la domanda di collezionisti, musei e case d’asta si allargò notevolmente spingendo le milizie talebane a organizzare una rete di saccheggio sistematico dei siti archeologici che, ancor oggi, è più che florida e sotto il diretto controllo di Al Qaeda.
Se si pensa che alcuni di questi oggetti (come le colonnine o le statuette di pietra in steatite) hanno raggiunto e superato alle aste di Londra e di Parigi il traguardo dei 100.000 euro, si intuisce quanto possa esser redditizia per i Talebani la “febbre battriana” scoppiata tra i collezionisti. Tra l’altro ricordo che la collezione privata di arte battriana più prestigiosa si trova proprio a Venezia, come testimoniano numerosi volumi pubblicati tra il 1988 e il 2008.
Come ebbe a scrivere Philippe Flandrin già nel 2001: «Lo sconforto maggiore proviene soprattutto dal considerare che questi saccheggi, realizzati sul piano pratico da volgari banditi, sono stati ispirati, direttamente o indirettamente, da persone che si definiscono di alta cultura, educate e raffinate, approfittando, come i nazisti, dell’agonia di uno sventurato paese».

Autore: Gabriele Rossi Osmida

Fonte: La Nuova di Venezia e Mestre, 13/08/2011

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