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Giulio M. FACCHETTI: Creta minoica tra scienza e fantascienza.

Scrivo alcune righe di precisazione alla redazione di ArcheoMedia, che ha pubblicato nel suo sito un testo del signor Angelo Di Mario, presentato come “recensione” di Creta minoica (libro di cui sono coautore col professor Mario Negri). Ora, se si trattasse di recensire un libro specialistico trattante uno specifico settore dell’astrofisica, dell’ingegneria, della biologia o dell’archeologia, non c’è dubbio che l’unica cosa sensata da fare sarebbe quella di rivolgersi, rispettivamente, a un astrofisico, a un ingegnere, a un biologo o a un archeologo (molto meglio se con competenze specifiche nel settore disciplinare trattato). Poiché Creta minoica tratta, in modo talora anche assai complicato, di argomenti di linguistica storica, è ovvio che ci si aspetti che possa recensirlo competentemente un linguista storico, ossia un glottologo. Dal canto suo Di Mario non è glottologo di professione né mostra di avere le minime cognizioni basilari della scienza linguistica, ma anzi di lanciarsi in “ragionamenti” del tutto “fantasiosi” (a dir poco) e privi di qualunque fondamento scientifico: tale giudizio sui suoi scritti (in cui etrusco e minoico vengono “tradotti” senza alcuna difficoltà), pubblicati a stampa e su internet, sarà ripetuto, anche dopo una lettura superficiale, da qualunque linguista (vale a dire da chi è competente a esprimere un parere) si vorrà interpellare. Perciò non ci può essere polemica né contraddittorio, semplicemente perché si opera su due piani distinti (quello della scienza e quello della fantascienza). In ogni caso tengo a precisare che il giudizio di valore è esclusivamente indirizzato alle idee espresse, non alla dignità personale, che va sempre rispettata. Del resto il caso di questo autore è soltanto una goccia nel mare magnum degli scrittori antiscientifici che proliferano attorno a questi settori (talora ingiustamente marginalizzati dall’indagine scientifica): riguardo all’etrusco, ma non solo, ho raccolto alcuni esempi significativi, commentandoli, di questo vero e proprio “genere letterario” (cioè delle pseudodecifrazioni di antiche scritture o lingue poco o pochissimo conosciute) nel terzo paragrafo, intitolato (G)lottologia etrusca, dell’articolo L’interpretazione dei testi etruschi e i suoi limiti (che dovrebbe uscire su “Archivio Glottologico Italiano” nel 2005). Il caso dell’autore in questione non vi è considerato (anche se era tra quelli della prima selezione che poi ho ridotto per ragioni di spazio), ma ce ne sono altri molto simili o addirittura speculari (anche per “metodo” e circostanze).

In linea di principio questo genere di scritti vengono giustamente e semplicemente ignorati dalla comunità scientifica (sennò si passerebbe la vita a confutare “aria fritta”), tuttavia farò un altro “strappo” (oltre quello contenuto nell’articolo L’interpretazione dei testi etruschi e i suoi limiti succitato) alla regola entrando nel merito di alcune delle visioni del Di Mario.

All’inizio della “recensione” si parla di Creta minoica come di un cumulo di semplici “nozioni apprese”, di intelligenza “mnemonica”, non “creativa”, come se fosse una specie di collage di scopiazzamenti vari: una tale affermazione risulta quanto meno arrogante, soprattutto dal momento che non è né puntualmente né genericamente supportata da argomenti. Del resto essa risulta completamente priva di senso per chiunque abbia conoscenza complessiva della bibliografia scientifica in materia.

Quanto al termine minoico (j)a-sa-sa-ra-me, in Creta minoica, in base a nostri lavori precedenti, si sviluppa l’idea che esso sia un nome per “dono” o simili piuttosto che il nome di una divinità, come si è creduto in precedenza: ciò sulla base di un metodo che è essenziale per lo studio di tutte le lingue sconosciute e scarsamente documentate: il “metodo combinatorio”, cioè lo studio dei testi coi testi, prima ancora di leggerli. Per esempio, considerato che nelle tavolette in lineare A il gruppo di segni ku-ro (ma sarebbe lo stesso se lo trascrivessimo, senza leggerlo, con i numeri di catalogo dei sillabogrammi: 81-02) precede sempre il numero risultante dalla somma di precedenti quantità di merci o persone, traiamo, combinatoriamente, la certezza che tale “parola” indichi il “totale” in minoico. Ugualmente, per (j)a-sa-sa-ra-me, sulla base di un assai ampio numero di testi sacri è possibile ricostruire una certa formula fissa di dedica: in tale formula (j)a-sa-sa-ra-me ricorre sempre in una determinata posizione, salvo che in un testo, in cui tale “parola” è sostituita dall’ideogramma delle olive, dunque un tipo di offerta sacra: perciò è ragionevole supporre che anche (j)a-sa-sa-ra-me esprima un riferimento, magari generico, a un tipo di dono sacro. Tutte queste considerazioni lineari e di tipo solidamente combinatorio sfuggono però all’”intelligenza creativa” del nostro “recensore”, che infatti non offre il più minuscolo argomento per metterle in dubbio, ma le definisce candidamente “una procedura contorta e inammissibile”. D’altronde frasi del Di Mario, come: “la doppia ss, per una scrittura monosillabica, comporta la resa -sa-sa, dal che ne deriva la stesura (j)a-sa-sa-ra, anziché Assara; ma questo non ci dice che la parola contenesse né la doppia né la h, come vorrebbe il Negri” dimostrano come il loro autore non abbia compreso neanche una parola del testo (come ciascuno potrà vedere volendo leggere Creta minoica, pp. 31-32, di cui si tratta, punto, tra l’altro, scritto da me e non da Negri): sono “eclatanti” l’espressione «scrittura mono(!)sillabica», l’asserzione che -ss(a)- dovrebbe scriversi con -sa-sa-, mentre nel passo in questione (p. 32) affermiamo proprio il contrario, il fatto che noi si sia sostenuta l’inclusione di -h- (ciò che invece era proprio dell’ipotesi di Palmer che proprio in quel punto rigettiamo), ecc.

Il resto della “recensione” è una riproposizione delle “traduzioni” già presentate dal nostro “recensore” nel suo sito web. Il “metodo” impiegato (non è certo originale, ma proprio della maggior parte di scrittori di questo tipo) per “tradurre” o dare l’“etimologia” di un qualsiasi termine consiste principalmente nel sentirsi legittimato a ricorrere “a proprio comodo” ai più svariati mutamenti fonetici delle consonanti (le vocali, “al solito”, non contano niente): così si passa, tranquillamente, da S a F a W a V a M a B a zero (anche saltando gli intermedi) oppure da K a S, da S a L o da S a R (solo per citare alcuni casi), a seconda delle convenienze. Tutti vedono che così si parte dove si vuole e si arriva dove si vuole (non parliamo poi delle identificazioni di “radici” o “suffissi”, secondo la tecnica, propria di questo tipo di scrittori, della “segmentazione a piacere” delle parole). Qualcuno dovrebbe spiegare al signor Di Mario cos’è una “commutazione” per identificare radici e affissi in una lingua, oppure che una legge fonetica va rigorosamente individuata all’interno di ciascuna lingua sulla base di “corrispondenze sistematiche” di tipo comparativo o di analisi interna: ne vanno identificati i termini cronologici di vitalità e le eccezioni (senza contare altri fattori collaterali, come l’analogia, la questione della maggior naturalezza di alcuni sviluppi, il problema del contatto tra lingue, dei prestiti, ecc.). Perciò, ad esempio, il passaggio di s ad h e poi a zero è effettivamente avvenuto in greco in determinati contesti (tra due vocali o all’inizio di parola prima di vocale); in latino, invece, si è avuto lo sviluppo da s ad r tra due vocali: ciò non vuol dire però che questi mutamenti fonetici possano applicarsi indiscriminatamente, vale a dire ammettendo. per fare un caso, il passaggio di una s intervocalica a r in una parola greca, oppure nello stesso latino, ma in un periodo in cui tale mutamento non era più vitale, oppure lo stesso sviluppo s > r in una lingua in cui non c’è prova che esso sia mai avvenuto (es. l’etrusco).

Il Di Mario opera invece proprio con questo tipo di espedienti: così una pretesa radice KAS “Luce/Signore” (sic) “evolve”, oltre che in W-ASH / ASH / AS (con cui si “spiega” (j)a-sa-sa-ra-me; lasciamo perdere, poi, per ragioni di spazio, la questione dell’H), anche in BAS (o PAS: tanto è “lo stesso”), che si “trova” nel greco classico basileus “re” (ma Di Mario ignora perfino che l’attestasione più antica del termine, in lineare B, è gwasileus, che indicava in origine non il “re”, ma un responsabile di officine artigianali!); inoltre, attraverso altri mutamenti si arriva a MAR, dell’etrusco mar-u “signore” (ma in realtà il termine indica un tipo di magistrato): “e il suo vice si disse MAR-u-nuch, ossia il *Wash-u-nus/ *Wash-u-lus > “marone/ barone” (F > m > b)”. Oltre ai mutamenti fonetici completamente arbitrari e alle solite segmentazioni a piacere (perché individuare as- in (j)a-sa-sa-ra-me? E perché dividere bas-ileus e non ba-sileus?) ogni riga di questo autore è infarcita di errori grossolani (es. la gwa- originaria di basileus) e manipolazioni di comodo (in etr. maru e marnuch, lungi dal significare non “signore” e “vice-signore”, in realtà indicano, come provato combinatoriamente in modo indiscutibile, il nome di un magistrato e quello della magistratura, come “console” e “consolato”: di solito si traducono “marone” e “maronato”). Inutile insistere oltre.

Chi volesse cominciare ad approfondire alcuni dettagli dei concetti tecnici impiegati potrebbe leggere qualsiasi manuale introduttivo alla linguistica, per esempio G. Graffi – S. Scalise, Le lingue e il linguaggio, Bologna, Il Mulino (in particolar modo anche il capitolo decimo, contenente nozioni elementari di linguistica storica).

Comunque, al di là del caso specifico di questo autore, ho ritenuto non inutile divulgare, anche tramite internet, alcune riflessioni sul tema degli pseudointerpreti di lingue (e scritture) antiche, di cui mi sono occupato più in generale nella pubblicazione specialistica sopra citata.

Vorrei infine insistere sul punto che, a mio parere, la maggior parte di questi scritti rivela la sua antiscientificità anche a chi non ha competenze specifiche; tuttavia, se non si è in grado di valutare bene il vortice confuso di taluni “ragionamenti”, che magari (per i non esperti) possono “assomigliare” un po’ agli “astrusi” procedimenti tecnici d’analisi linguistica, sarebbe meglio chiedere il parere di uno specialista, come si farebbe per qualunque altra disciplina.

Giulio M. Facchetti, insegna linguistica e semiotica all’Università dell’Insubria (Varese-Como); si è occupato di lingue antiche e scarsamente documentate del bacino del Mediterraneo, specialmente della questione dell’etrusco e delle lingue e delle scritture dell’antica Creta, nonché dei rapporti tra codice lingua e codice scrittura su un piano tipologico e generale. È autore di molti articoli e saggi specialistici (tra cui: Frammenti di diritto privato etrusco [Firenze, Olschki, 2000]; Appunti di morfologia etrusca [Firenze, Olschki, 2002]; Antopologia della scrittura. Con un’appendice sulla questione del rongorongo dell’Isola di Pasqua [Milano, Arcipelago Edizioni, 2002] e, con Mario Negri, Creta minoica. Sulle tracce delle più antiche scritture d’Europa [Firenze, Olschki, 2003]) e divulgativi (tra cui: L’enigma svelato della lingua etrusca, Roma, Newton Compton 20012).


Autore: Giulio M. Facchetti

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