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Giuliano CONFALONIERI, Archeologuria (settimana parte).

Dall’etnia indifferenziata alla tribù, dal nucleo famigliare a quello abitativo pubblico. Il borgo, la villa, il castello, la città e la metropoli, hanno segnato nel tempo l’evoluzione della società umana.
L’esigenza di  riunirsi in gruppo per avere maggiori possibilità di difesa e di offesa nonché per facilitare la pratica del  baratto (“Vorrei del tuo ronzin, gli disse il matto, con la giumenta mia fare un baratto”, Ariosto) ha costituito per secoli la ragione degli insediamenti umani. La scelta del luogo stanziale privilegiava inevitabilmente un punto strategico utile a risolvere situazioni di carattere militare e per favorire i mercanti il cui mestiere, stranamente, fu considerato ‘non grato a Dio’ da una parte del clero perché i rapporti di compravendita basati sul profitto erano considerati potenzialmente fonte di peccato.
I Genovesi in particolare erano definiti ‘mercanti’ tout court; pure l’usuraio era additato come nemico di Dio, un mostro morale da bollare inesorabilmente e punito con demoni che lo trascinano all’inferno facendogli ingoiare monete roventi. Tuttavia gli imprenditori del tempo furono indispensabili strumenti di appoggio finanziario per l’aristocrazia e la monarchia; nelle città italiane questa professione fu quasi sempre rispettata oltre che redditizia: il vescovo genovese Jacopo da Varazze (autore della ‘Legenda sanctorum’, una raccolta di narrazioni sulla vita dei santi scritta nella seconda metà del 1200) non considerava negativa la ricchezza acquisita perché la paragonava a quella accumulata dai patriarchi biblici.
Il lavoro è uno dei doveri fondamentali che, nella concezione di Ambrogio, dovrebbe rappresentare il fulcro dell’armonia politica e sociale. I Padri della Chiesa collegarono i nascenti concetti economici ai principi morali cristiani. Giovanni Crisostomo, Basilio, Girolamo e Agostino analizzarono il significato  di ricchezza, lavoro e proprietà.
Benedetto da Norcia con la sua regola “Ora et Labora” esprime semplicemente ciò che il sociologo tedesco Max Weber motiverà così: “La complessa realtà che è un’etica economica non è mai dovuta soltanto alla religione poiché giocano molti altri fattori storici e geografici; ma tra le cose che formano un’etica economica c’è anche il condizionamento religioso della condotta della vita, che a sua volta subisce l’influenza di tante altre condizioni”.
Il commercio spicciolo di stoffe, seta, cotone, droghe, olio, vino e lana era solitamente praticato all’interno delle mura ma lo scambio di prodotti su scala internazionale per gli approvvigionamenti veniva fatto con lunghi spostamenti a dorso di mulo e su carri a due ruote, su chiatte oppure con navigazione sotto costa fino alla scoperta della bussola; chiese ed abbazie, feudatari e Comuni fornivano la necessaria assistenza per il ricovero ed il riposo delle carovane. È interessante rilevare come i trasporti via mare fossero molto intensi, grazie ad una nutrita flotta di naviglio minore che solcava le acque del Tirreno per trasportare da e per i porti savonesi manufatti vari e prodotti alimentari in Provenza, Corsica, Maremma e Sardegna.
Dal XII sec. il commercio mediterraneo diventò monopolio delle repubbliche marinare italiane, stimolato forse dall’enorme movimento di persone che parteciparono alle numerose Crociate in Terra Santa. Gli uomini d’affari furono così pungolati a viaggiare per conoscere mercati e tecniche, possibilità di sviluppo e rischi. Infatti per avere successo bisognava sapere leggere, scrivere e ‘fare di conto’: organizzarono il credito scontrandosi con le severe leggi canoniche, inventarono l’assegno e la cambiale. L’istituzione italiana della Banca sorta nell’età dei Comuni fu un necessario strumento ed un valido supporto alle varie iniziative, quella dell’Università (‘universitates’ o organismi associativi) fu un modo per raggruppare le varie scuole di una città suddivise in arti o corporazioni (Bologna ebbe tale riconoscimento nel 1158 da Federico Barbarossa, Parigi nel 1180 da Luigi VII).
Furono i gruppi artigiani ma soprattutto i mercanti che aprirono nuove possibilità all’iniziativa privata, dando possibilità di affermazione anche a chi non era nobile per nascita o per meriti acquisiti sul campo di battaglia. Una volontà di riscatto realizzata dalle “Compagne” (base dell’odierna istituzione del Comune che, diffusosi come struttura di governo intorno al Mille, assunse nel tempo la forma consolare e podestarile), organizzazioni di gruppi appartenenti allo stesso quartiere o mestiere, nate per diminuire la supremazia di vescovi e marchesi e quindi per favorire le aspirazioni d’autonomia dal feudalesimo, basato prevalentemente sui privilegi.
La società e la cultura della Liguria si espandevano soprattutto lungo l’asse naturale delle numerose vallate anziché, come in epoca moderna, lungo l’intero arco geografico della regione; ne sono una evidente conferma i numerosi confini (Finale: ‘ad fines’) che delimitavano le influenze politiche ed economiche tra un crinale e l’altro (le ‘vie del sale’ valicavano i passi principali portando dal mare al Piemonte i carichi del sale provenienti anche dalla Camargue, acciughe e l’olio dei frantoi; una di queste vie commerciali partiva da Pietra, passava dal giogo di Giustenice e attraverso il Colle del Melogno raggiungeva i mercati del nord). I bastioni fortificati costituivano una sorta di  merce di scambio con la popolazione: offerta di protezione in caso di guerra e in periodi di carestia, richiesta di tasse su stoffe, legname, bestiame, prodotti della terra e servizi coatti per tutta la vita. Era una cultura nella quale i diritti ereditari avevano il sopravvento sulle libertà influenzando una economia che dipendeva in massima parte dai prodotti delle grandi proprietà feudali e dei grandi monasteri, i cui ordini rappresentavano in quella società un fulcro importante di aggregazione e di potere.
Il monachesimo costituì un fenomeno rilevante con estese influenze in ambito sociale perché strumento di divulgazione culturale e di centro del potere, proprio per la diffusione capillare delle comunità religiose. Sentito come esigenza anche dalle religioni non cristiane (buddismo, lamaismo, induismo), il monachesimo influì notevolmente in vario modo sui diversi strati sociali dell’epoca per la sua notevole capacità di accentramento e di gestione: in attesa dell’invenzione della stampa di Gutenberg, furono i copisti dei monasteri a tramandare il patrimonio librario dell’antichità ed a mantenere i legami con società in costante cambiamento. Il misticismo (‘Itinerari  mentis  in  Deum’) correva su binari paralleli alle grandi proprietà fondiarie dei conventi: è una delle più antiche espressioni della religiosità, scaturito dalle pratiche misteriche del mondo orientale e greco precristiano. Il monachesimo come fucina di preghiera: Pacomio, Ilarione, Efrem, Basilio, Atanasio, Ambrogio, Eusebio, Martino, Agostino, Benedetto, Francesco e Domenico furono fondatori di ordini monastici  basati su povertà, castità, ubbidienza; vita ascetica nel mondo, nella solitudine (anacoreta) e nei monasteri (cenobita). Camaldolesi (1012), Vallombrosiani (1036), Certosini (1084), Cistercensi (1098), Silvestrini (1231), Olivetani (1313) e le derivazioni femminili delle Clarisse (Chiara) e delle Carmelitane (Teresa): “La regola e la vita dei frati minori è questa, osservare cioè il santo Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo, vivendo nell’ubbidienza, senza nulla di proprio e in castità” (Francesco d’Assisi).  

Autore: Giuliano.confalonieri@alice.it

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