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TORINO – MUSEO EGIZIO – Casa nuova per il Faraone.

Rilancio in grande stile per il Museo Egizio torinese. Come sarà? Che cosa accadrà durante i lavori?

Non dite che, per importanza, è il secondo museo egizio al mondo dopo quello del Cairo. No, è meglio dire che “dal punto di vista specialistico si presenta come il museo complementare a quello del Cairo”, ed è un complimento più grosso, anche se espresso con undestatement. A formularlo è il professor Francesco Tiradritti, dicente universitario a Napoli, membro del trio di egittologi – lui più l’illustre studioso torinese Silvio Curto e il direttore del museo egizio di Berlino Dietricj Wildung – cui la Compagnia di San Paolo ha affidato uno studio su come “riconfigurare” il museo egizio di Torino.

Già, l’istituzione mirabile e venerabile (fondata ufficialmente nel 1824, ma i primi reperti faraonici cominciano ad arrivare in città nel Seicento) sta per cambiare carta d’identità e “look”: da Sovrintendenza dello Stato a Fondazione di diritto privato (molto annunciata, è ormai in dirittura d’arrivo, entro l’anno dovrebbe essere cosa fatta); da museo fisiognomicamente ancorato al XIX secolo a spazio espositivo “proiettato nel terzo millennio”. Niente rivoluzioni, però, né traslochi. “Il museo non rinnega la propria origine”, assicura Tiradritti, “ha solo bisogno di dotarsi di tutti i grandi servizi che fanno la comunicazione moderna: videoteca, sale di proiezione, ristoranti, una biblioteca che capovolga l’immagine classica della biblioteca: aperta anziché chiusa, un’agorà mediatica … E naturalmente, soprattutto, ha bisogno di respirare, ampliarsi”.

Altro che respirare: si pensa addirittura a un raddoppio degli spazi! “Adesso il museo occupa 6.500 metri quadri del Palazzo dell’Accademia delle Scienze”, informa Dario Disegni, responsabile cultura, arte e beni ambientali della Compagnia di San Paolo, partner della costituenda Fondazione museale assieme a ministero, comune, regione, provincia e fondazione CRT. “L’area espositiva è di 3.300 mq. Col nuovo progetto ne acquisterà altri 4.550 dalla Galleria Sabauda, che sgombrerà gli ultimi due piani dell’edificio per trasferirsi alla manica nuova di Palazzo Reale. Ancora: si potranno recuperare i 700 mq. Della vecchia tipografia Marchisio, fino a ieri affittuaria dell’Accademia; i 2.250 mq. del piano interrato dell’adiacente chiesa di San Filippo Neri e, naturalmente, i 950 mq. del piano ipogeo sotto il cortile… “.

Totale: 14.950 mq. per un’esposizione che, nelle parole di Tiradritti, dovrebbe evocare l’immagine dell’ourobouros, il mitico serpente celeste che si morde la coda, perché “tutti i percorsi si ricongiungono e tornano su se stessi, consentendo al visitatore di costruirsi à la carte il proprio itinerario, con giochi ipertestuali – deviazioni/approfondimento – che aumentano la sensazione di avventura, di scoperta”. L’architetto che vincerà il concorso per l’ampliamento e il rinnovo del Museo egizio torinese avrà a disposizione una gran quantità di studi, per aiutarlo. Quello degli egittologi e quello dei colleghi architetti Trucco e Pagliero (sono loro ad avere esplorato le possibilità di intervento sui vecchio e nuovi spazi museali), e quelli commissionati dalla Regione Piemonte e dalla fondazione CRT all’Ires, sulla valorizzazione del museo durante il cantiere e a regime. Particolarmente interessante, per le notizie relative alle esperienze dei più grandi musei del mondo, lo studio sulla valorizzazione durante il cantiere.

Un argomento che ha acceso l’animo della dottoressa Annamaria Donadoni, sovrintendente del museo. Tra le ipotesi possibili c’è anche quella di una chiusura? La signora Donadoni non ci sta. “Assurdo, abbiamo fatto tutti gli interventi nell’ala Schiaparelli senza nessuna chiusura extra. Sarà certo possibile fare lo stesso coi nuovi lavori”. Lo auspicano tutti, ma intanto gli studiosi dell’Ires, firmato dal direttore Marcello La Rosa e dall’esperto di economia dell’arte Vittorio Falletti, offre comunque una serie di spunti stimolanti.

Perché il problema esiste, eccome. Non solo la chiusura totale, ma anche l’inaccessibilità parziale delle collezioni crea disagi; il pubblico si scoraggia. E siccome, ricorda La Rosa, “il ritorno di un bene culturale è nell’ambito del sistema che riesce a creare nel territorio” (traduzione gallerie d’arte, musei, monumenti e quant’altro sono profittevoli se attirano persone che poi mangeranno, dormiranno, spenderanno in loco), ecco che la “ricaduta” economica di un cantiere può essere pesante. Che dire agli albergatori, ai ristoratori, ai negozianti privati dell’abituale clientela? Quale escamotage trovare che consenta di recuperala? E inoltre – in primis, a dire il vero – come far sì che un dato negativo (chiusura o chiusura parziale) si muti in fattore di stimolo, giocando su “trovate” sostitutive, invenzioni mediatiche?

Dopo un giro del globo effettuato con l’aiuto degli Istituti di cultura italiani all’estero e una serie di incontri e discussioni con professionisti del ramo, gli esperti dell’Ires hanno individuato cinque casi di particolare interesse e di chiara eccellenza cui riportare il caso del Museo egizio. Lo studio Close(d) To Meet You – titolo/calembour: può voler dire “Chiuso per incontrarti” o anche “Vicino a incontrarti” – illustra le scelte compiute dal Louvre, dal Centre Pompidou, dal MoMA di New York, dal Museo nazionale svizzero di Zurigo e dall’Asian Museum di San Francisco in occasione di lavori d’ampliamento o di restauro. E se è chiaro che le dimensioni di Torino non suggerirebbero comunque l’adozione del modello MoMA (chiusura della sede di Manhattan e trasferimento di una parte significativa delle opere in una nuova sede temporanea a Queens, una zona popolare della città benedetta improvvisamente dalla luce dei riflettori), l’idea di approfittare del cantiere per allestire in altra sede una mostra, magari piccola ma significativa, è vincente. “Che si chiuda o non si chiuda”, spiega Falletti, “è un modo di far parlare del Museo, di rilanciarlo al centro del dibattito culturale, delle recensioni, dell’attenzione dei turisti e dei torinese”. Del resto, a New York, molta gente che non sarebbe tornata a visitare il MoMA s’è cavata lo sfizio di andare fino a Queens, dove peraltro, senza il MoMA, non sarebbe mai andata.

Certo, a studiosi austeri come la professoressa Donadoni l’ambaradam mediatico che s’annuncia attorno al museo può apparire – come dire? – sopra le righe (“con poco personale e anche pochi egittologi siamo riusciti a creare le nuove sale della Preistoria e dell’Antico Regno, lavorando con discrezione”), ma l’obiettivo di arrivare al mezzo milione di visitatori all’anno – contro i 250-300 mila di adesso – si centra anche con la pubblicità. L’aumento di visitatori dovrà siglare il successo di un’operazione che, a prescindere dai costi di cantiere, aumenterà considerevolmente i costi di gestione. “Oggi per il museo si spendono circa 3 milioni di euro all’anno”, informa Alberto Vanelli, direttore dei Beni culturali della Regione Piemonte. “Domani, a pieno regime, se ne spenderanno sei o sette”. Vanelli si spinge a quantificare anche i costi della ristrutturazione e del riallestimento: “Attorno ai 30-35 milioni di euro”.

A confortare gli investitori (la voce corrente dice che l’onere maggiore se lo accollerà la Compagnia di San Paolo) c’è il successo enorme del Museo del Cinema nella Mole Antonelliana, un milione di visitatori in due anni, esattamente il target del rinnovando Museo Egizio. E se là è conservata una delle più importanti collezioni mondiali di film muti, qua è conservato qualcosa che addirittura manca anche al Cairo: “L’unica tomba privata intatta custodita in un museo d’antichità egizie”, s’entusiasma Francesco Tiradritti, ed è il magnifico sepolcreto dell’architetto Kha e di sua moglie Merit, scoperto a Deir el-Medina. La favolosa tomba del mercante Meket-Rha, gemma cairota, non può competere con la tomba torinese semplicemente perché non è intatta: metà sta nel museo egiziano, l’altra metà al Metropolitan di New York.

Dare visibilità a simili gioielli, “vendere” l’immagine di Torino come città d’arte è in cima ai pensieri di molti, in riva al Po. Dice Disegni: “Ma lo sa che c’è un mucchio di gente che quando viene qui per affari pensa di arrivare a Detroit? Poi vedono il centro storico, i palazzi, i musei e restano sbalorditi… Vogliamo che vengano apposta, che non restino più sbalorditi. Che Torino si conquisti il posto che meritano i suoi tesori”.

Fonte: La Stampa Specchio – 12 luglio 2003
Autore: Maria Giulia Minetti
Cronologia: Egittologia

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