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ROMA. L’Egitto e l’egittologia a Roma.

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Il 2021 è stato il bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte, celebrato in Francia con un discorso del presidente Macron presso la tomba all’Hôtel National des Invalides, pur tra molte polemiche intorno a una figura considerata, con i parametri odierni, maschilista e imperialista. Ma la storia è talvolta paradossale, ed è proprio grazie alle conquiste militari di questo megalomane temerario e intelligentissimo (e al genio di uno studioso almeno altrettanto spavaldo e geniale) che un anno dopo, nel 2022, possiamo celebrare un altro bicentenario: quello della decifrazione della Stele di Rosetta e dei geroglifici egizi, una tra le più emozionanti e significative scoperte della civiltà, capace di restituire voce a un’intera epoca.
egittoEra infatti il 27 settembre 1822 quando, dopo anni di studio indefesso, il trentaduenne Jean-François Champollion, ex enfant prodige figlio di un libraio di Figeac, ultimo di sette fratelli nato nel pieno della Rivoluzione francese, pubblicava la sua Lettre à M. Dacier indirizzata al segretario dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. Con questa comunicazione scientifica in forma epistolare (come si usava allora), annunciava al mondo scientifico di aver decifrato quella scrittura ormai da migliaia di anni incomprensibile e misteriosa.
L’ultima iscrizione in caratteri geroglifici, infatti, era stata incisa sulla porta di Adriano, nell’isola di Philae sul Nilo, nel 394 d.C.; ma già in epoca classica l’uso di quel sistema era andato scemando fino a estinguersi del tutto nei secoli in cui, in Egitto, si erano susseguiti i Persiani (525 a.C.), i Macedoni di Alessandro Magno (332 a.C.), l’avvento della dinastia Tolemaica di lingua greca (conclusa con la morte di Cleopatra VII nel 30 a.C.), e l’occupazione romana che durerà fino al 395 d.C. lasciando il posto al cristianesimo di rito copto (dall’arabo qubti, a sua volta derivato dal greco Ayguptos, “Egitto”). Questa fase segnerà la definitiva distruzione o l’abbandono delle testimonianze pagane e la trasformazione di molti templi antichi, con le loro iscrizioni murarie, in chiese cristiane o cave di materiale di spoglio per altre costruzioni. Nel 654, poi, l’Egitto verrà conquistato dagli arabi per divenire, nel 1517, una provincia del vasto impero ottomano. Fino alla campagna militare guidata da Napoleone Bonaparte nel luglio 1798.
Ed è qui che la storia geopolitica si incrocia per la prima volta con il destino di Jean-François Champollion, che allora doveva ancora nascere e che diverrà il fondatore di una nuova disciplina, l’egittologia moderna.
La flotta di Napoleone era partita per la Valle del Nilo portando con sé 167 tra i più insigni e dotti studiosi francesi, selezionati personalmente dal condottiero corso. Arrivati in quella terra mitica, i ricercatori iniziarono a sciamare esplorando tombe millenarie mai profanate, arrampicandosi sulle sfingi, documentando tutto quello che vedevano e inviando rilievi, reperti e disegni al Cairo, dove era stato installato il quartier generale della spedizione accademica. Durante i lavori di ripristino del vecchio forte arabo di Rashid (Rosetta), che i soldati intendevano utilizzare come avamposto contro gli inglesi, tra i detriti fu rinvenuta in modo del tutto casuale una lastra monolitica in granodiorite delle dimensioni di 112,3 x 75,7 x 28,4 cm e dal peso di 760 kg, su cui era incisa un’iscrizione divisa in tre registri corrispondenti a tre differenti lingue e grafie: geroglifico, demotico e greco antico. La notizia dal ritrovamento generò subito una potente ondata di entusiasmo in Europa, alimentando sul piano scientifico una competizione senza esclusione di colpi già in corso tra Francia e Inghilterra sul piano militare e politico. Fu chiaro a tutti, infatti, che i tre registri dovevano recare la traduzione di un medesimo testo, e che la versione in una lingua perfettamente nota come il greco era la chiave che avrebbe consentito, come in uno schema crittografico, di scardinare tutto il resto ridando voce a una lingua illeggibile.
Le cose si rivelarono molto, ma molto più difficili. Solo la tenacia di Jean-François Champollion, la sua ottima conoscenza delle lingue orientali e in particolare del copto (una lingua derivata dal demotico egizio, emanato a sua volta dal geroglifico), insieme con l’apporto di altri eruditi dell’epoca (non sempre riconosciuto da Champollion) riuscì a penetrare quella scrittura. Nel frattempo, comunque, in Francia e nel resto d’Europa era scoppiata l’egittomania: i collezionisti e tutte le dame più à la page desideravano vedere, toccare, acquistare reperti e iscrizioni egizie, immaginare l’Egitto attraverso stampe e disegni, arricchire le proprie case di arredamenti ispirati allo stile faraonico. Alcuni riuscirono anche a raggiungere il Nilo, come il ricco collezionista William John Blakes, che al suo ritorno portò con sé l’obelisco di Philae, oggi nel giardino della sua tenuta di Kingston Lacy.
Anche noi romani, oggi, possiamo concederci di assecondare la nostra egittomania, e celebrare così il bicentenario della scoperta di Champollion. Ecco alcune tappe immancabili per incontrare l’Egitto a Roma.

La piramide Cestia

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Roma antica scopre il fascino dell’Egitto nel I secolo a.C., con la conquista dell’antico regno da parte di Giulio Cesare e Augusto.
Appassionato d’Egitto o amante della moda, in punto di morte nel 12 a.C. circa, il tribuno della plebe e septemviro Gaio Cestio Epulone dispose che i suoi familiari costruissero per lui, entro 330 giorni, una grande tomba di forma piramidale, pena la perdita della ricca eredità. La sua ultima volontà fu zelantemente eseguita, come ricorda l’iscrizione ancora leggibile sulla superficie orientale dell’edificio in marmo di Carrara: Opus absolutum ex testamento diebus CCCXXX, arbitratu (L.) Ponti P. f. Cla (udia tribu), Melae heredis et Pothi l(iberti).
La camera sepolcrale interna, che occupa appena l’1% della cubatura totale del monumento, è decorata con raffinati e sobri affreschi in terzo stile pompeiano il cui delicato restauro si è concluso nel 2017; purtroppo, dove probabilmente era il ritratto del defunto, è stato trovato solo un foro, praticato in epoca sconosciuta da qualche spregiudicato tombarolo alla ricerca di tesori. La visita all’interno della piramide, obbligatoriamente guidata e su prenotazione, sarebbe normalmente consentita da CoopCulture, ma da tempo il sito archeologico è chiuso fino a data da destinarsi.
Possiamo però ammirare la piramide di Cestio dall’esterno, svettante per una trentina di metri all’inizio di Via Ostiense (sebbene si trovi al di sotto del piano stradale odierno) a ridosso delle Mura Aureliane. Il punto d’osservazione più suggestivo è l’interno del Cimitero Acattolico di Roma, un luogo magico dove sarà piacevole fare una passeggiata: prendetevi, quindi, un po’ di tempo.
Come Gaio Cestio, altri romani facoltosi avevano ceduto all’egittomania e sognato per sé tombe faraoniche degne della terra leggendaria in cui Roma aveva, una volta per tutte, affermato il suo predominio sconfiggendo Cleopatra e Marco Antonio.
Una piramide marmorea si ergeva sul lato destro della Via Flaminia, attuale via del Corso, nell’area dove, dal 1675, Alessandro VII fece costruire la chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Probabilmente, anzi, parte dei materiali per la costruzione di questa chiesa, come per quella di Santa Maria del Popolo poco lontana, proviene proprio da questo monumento sepolcrale.
Un’altra tomba piramidale si trovava lungo l’antica Via Trionfale, dove oggi sorge Santa Maria in Transpontina all’inizio di Via della Conciliazione. Fu fatta demolire nel 1499 da Alessandro VI per costruire la Via Alessandrina, a sua volta distrutta dagli interventi urbanistici di Mussolini. Possiamo però rintracciarne delle immagini avventurandoci con un po’ di spirito d’osservazione all’interno dello Stato Vaticano: una fantasiosa ricostruzione è nel grande affresco di Giulio Romano nella Sala di Costantino, più in particolare nell’episodio che descrive la visione della croce all’alba della battaglia di Ponte Milvio, dipinto tra il 1520 e il 1524; un’immagine è poi nella Crocifissione di Pietro del Polittico Stefaneschi dipinto da Giotto nel 1320 circa (destinato a decorare l’altare dei canonici nella basilica di San Pietro e oggi nella Pinacoteca dei Musei Vaticani) e in un’altra Crocefissione di Pietro nel battente destro della grande Porta del Filarete, fusa in bronzo tra il 1433 e il 1435 e oggi ancora al suo posto all’ingresso della basilica vaticana. Secondo gli Atti degli Apostoli, infatti, Pietro fu martirizzato nel Circo di Nerone, corrispondente all’area dove, all’inizio del IV secolo d.C., sarebbe sorta la basilica che porta il nome dell’apostolo: da lì, la piramide era certamente visibile.

L’obelisco Vaticano
Un altro monumento era stato testimone del martirio di Pietro: l’obelisco Vaticano proveniente da Eliopoli e collocato da Caligola nel Circo di Nerone nel 40 d.C. Questo colossale monolite di granito rosso alto 25,37 metri non è mai caduto a terra e non si è mai spezzato (a differenza di altri sopravvissuti) ed è il primo a essere stato riutilizzato nel corso delle sistemazioni urbanistiche di Sisto V. Infatti, nel settembre del 1576, fu fatto spostare da questi al centro di Piazza San Pietro, dove tuttora svetta come simbolo dell’indistruttibilità della Chiesa Cattolica. Le operazioni di spostamento e innalzamento furono molto faticose e delicate: l’architetto Domenico Fontana impiegò 900 uomini, 75 cavalli e 40 argani; la scena è stata affrescata in una delle sale della Biblioteca Vaticana tra il 1585 e il 1587 (fateci caso se, in visita ai Musei Vaticani, vi trovate a percorrere la galleria inferiore che conduce all’uscita!).
Secondo la leggenda, il globo sulla sommità dell’obelisco, oggi ai Musei Capitolini, conteneva le ceneri di Giulio Cesare.

L’obelisco Flaminio
Tra i più antichi, risale al tempo di Ramses II, nel XIII secolo a.C., e faceva parte di un tempio dedicato al dio del sole Ra. Alto 25,91 metri, fu fatto portare a Roma da Augusto e innalzato nel Circo Massimo mantenendo la dedica alla divinità solare (l’iscrizione latina termina, appunto, con le parole “Soli Donum Dedit”). Recuperato nel 1587, tre anni dopo fu innalzato da Domenico Fontana in Piazza del Popolo, dove oggi si trova ancora, ornato dalle quattro vasche progettate da Giuseppe Valadier nel 1823.

egittoL’obelisco Lateranense
Con i suoi 32,18 metri, è il più alto al mondo. Risalente al XV secolo a.C., si trovava nel tempio di Ammone a Karnak e fu portato a Roma dall’imperatore Costanzo II per essere innalzato, nel 357, nel Circo Massimo insieme con l’obelisco Flaminio. Fu rinvenuto a terra nel 1587, spezzato in tre punti, e venne nuovamente eretto davanti alla Loggia delle Benedizioni di San Giovanni in Laterano, all’inizio dell’asse di Via Merulana che lo congiunge con Santa Maria Maggiore, dove si trova l’obelisco Esquilino.

L’obelisco Esquilino
Probabilmente fu fatto realizzare da Domiziano nel I secolo d.C., a imitazione degli obelischi egizi, ed è gemello dell’obelisco del Quirinale con esso collocato, in antico, all’ingresso del Mausoleo di Augusto. Alto 14,75 metri, nel 1587 Sisto V lo fece spostare di fronte all’abside di Santa Maria Maggiore per segnare, con obelisco di Trinità dei Monti, i due capi del rettifilo della nuova Via Sistina.

L’obelisco Sallustiano
Questo obelisco, come il precedente, è un’imitazione romana su cui furono copiati geroglifici dei faraoni Ramses II e Seti I (illeggibili per i romani, ma così affascinanti!).
Si trovava negli Horti Sallustiani, proprietà della famiglia Ludovisi, ma solo nel 1789 Pio VI dispose la sua collocazione in cima alla scalinata di Trinità dei Monti, dinanzi alla chiesa omonima. Da qui, con i suoi 13,91 metri l’obelisco traguarda l’obelisco Esquilino e, fatto unico al mondo, se ci si sposta al centro dell’incrocio tra Via del Quirinale e Via delle Quattro Fontane è possibile vedere contemporaneamente l’obelisco Sallustiano, l’obelisco Esquilino e l’obelisco Vaticano.

L’obelisco del Quirinale
Anch’esso fu creato a imitazione degli obelischi egizi, intorno alla fine del I secolo d.C., ed è considerato il gemello dell’obelisco Esquilino, con il quale arricchiva l’ingresso del Mausoleo di Augusto. Ritrovato nelle fondamenta dell’Ospedale di San Rocco a Ripetta tra il 1722 e il 1776, Pio VI lo fece posizionare al centro della fontana del Quirinale tra i due colossali Dioscuri provenienti dalle vicine Terme di Costantino.

L’obelisco Agonale
Alto 16,53 metri, fu realizzato in età domizianea sul modello egizio, riproducendo (senza del resto comprenderli) i misteriosi geroglifici. Massenzio lo fece innalzare nel circo della sua villa sulla Via Appia, icino al Mausoleo di Cecilia Metella; ma nel 1651, per volere di Innocenzo X, Gian Lorenzo Bernini lo impiegò nella sua straordinaria Fontana dei Quattro Fiumi al centro di Piazza Navona.

L’obelisco della Minerva
È uno dei più piccoli, alto solo 5,47 metri, e fu portato a Roma da Eliopoli, sotto l’impero di Domiziano, insieme con quello di Dogali, quello del Pantheon, e l’obelisco di Boboli a Firenze. Fu trovato nel 1665, con i suoi gemelli, nei pressi del complesso di Santa Maria sopra Minerva, sorta sulle rovine di un tempio dedicato a Iside. Su disegno di Gian Lorenzo Bernini sormonta il celeberrimo elefantino chiamato dai romani “porcin della Minerva”; la stessa composizione, del resto, figurava già in una delle tavole del romanzo allegorico di Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, stampato da Aldo Manuzio nel 1499: il significato allegorico era che la sapienza celata dai geroglifici egizi poteva essere sostenuta soltanto dalla leggendaria memoria dell’elefante.

L’obelisco del Pantheon o Macuteo
Alto 6,34 metri, risale (come il Sallustiano e il Flaminio) al tempo di Ramses II, e le sue iscrizioni originali ricordano la parentela del faraone con il dio del sole Ra. Dopo il ritrovamento, fu collocato dinanzi alla chiesa di San Macuto (cui deve uno dei suoi nomi), ma nel 1711 Clemente XI lo fece disporre sulla fontana di Giacomo della Porta in Piazza della Rotonda, di fronte al Pantheon.

L’obelisco di Dogali
Con i suoi 2 metri, è il più piccolo obelisco della città. Dopo essere stato scolpito in epoca domizianea, se ne persero le tracce per secoli, finché fu ritrovato nel 1883 e successivamente collocato in posizione trionfale davanti alla vecchia, bellissima Stazione Termini, per ricordare la battaglia di Dogali combattuta il 26 gennaio 1887 fra le truppe del Regno d’Italia e le forze dell’Impero etiope. Nel 1925, per il radicale riassetto della stazione, l’obelisco fu spostato poco più in là, in Via delle Terme di Diocleziano, dove è completamente abbandonato alla rovina.

L’obelisco di Montecitorio o Campense
Alto 21,79 metri, risale al regno di Psammetico II, nel VI secolo a.C. Traslato a Roma da Augusto nel 10 d.C., costituiva lo gnomone della gigantesca meridiana dedicata all’imperatore in Campo Marzio, il cui piano orizzontale (con l’indicazione dei giorni e dei segni zodiacali) è oggi nascosto nello scantinato di un palazzo di proprietà privata poco distante. Rovinato a terra forse durante il terremoto dell’849, o durante il sacco di Roma a opera di Roberto il Guiscardo nel 1084, alla fine del XVIII secolo Pio VI lo fece innalzare dove tuttora si trova, dinanzi a Palazzo Montecitorio, poco distante dalla Colonna di Antonino Pio.

L’obelisco di Villa Celimonana o Matteiano
Di questo piccolo obelisco, in realtà, solo la parte superiore alta 2,68 metri è originale. Anche questo gioiello risale al tempo di Ramses II, e fu portato nel tempio di Iside in Campo Marzio da dove proviene anche la statua di Iside Sothis, oggi nota come Madama Lucrezia, all’entrata laterale di Palazzo Venezia verso Piazza San Marco. Nel 1582 il Senato di Roma ne fece dono alla famiglia Mattei, che cinque anni dopo lo installò nella villa del Celio che nel XIX secolo diverrà il parco pubblico di Villa Celimontana.

L’obelisco del Pincio o Aureliano
Alto 9,24 metri, fu fatto realizzare ed erigere in Egitto da Adriano per commemorare il suo giovane amante Antinoo. Nel III secolo, Eliogabalo lo fece portare nel circo del suo complesso residenziale presso il Palazzo Sessoriano, poco lontano da dove, secoli dopo, sorgerà la basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Ritrovato a pezzi vicino a Porta Maggiore, nel 1822 Pio VII lo fece collocare nei giardini del Pincio dove si trova tuttora.

A Roma c’erano anche templi e sacelli dedicati alle divinità egizie, in particolare Iside e Serapide. Purtroppo ne rimangono davvero poche tracce. L’Iseo del Campo Marzio, il più importante, si trovava nella zona del Pantheon, e alcuni resti sono sepolti sotto il Palazzo del Seminario, la chiesa di Santa Maria sopra Minerva e la chiesa di Santo Stefano del Cacco. Il nome di quest’ultima, in effetti, deriva proprio dal ritrovamento di una statuetta di Thot, il dio egizio talvolta rappresentato in forma di babbuino o macaco. Diversi esemplari di statue in basalto nero raffiguranti questa o altre divinità egizia si trovano, per esempio, nei Musei Vaticani.
Sulle pendici del colle Quirinale si trovava un altro luogo di culto dedicato a Serapide: i resti sono nascosti dall’Università Gregoriana in Piazza della Pilotta e Palazzo Colonna (all’interno del quale, nell’appartamento di Isabelle Sursock, sopravvive però un bellissimo coccodrillo in granito rosso).

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Sul Colle Oppio, tra via Labicana e il Colosseo, si trova oggi Piazza Iside: spremuti fra i palazzi moderni, si possono ammirare resti appartenenti a un antico luogo di culto dedicato alla dea.

Andare a caccia delle sculture egizie presenti a Roma è l’occasione per visitare alcuni tra i musei più importanti della città, e per allenare lo sguardo a scovare dettagli a volte trascurati. Per partire dai già citati Musei Vaticani, una tappa imprescindibile è il Museo Gregoriano Egizio fondato da Gregorio XVI nel 1839. La collezione, distribuita in nove sale disposte lungo l’emiciclo del nicchione della Pigna, è ricca di opere importate dall’Egitto in epoca romana, per decorare edifici e ville (Villa Adriana a Tivoli, gli Horti Sallustiani), oppure di manifattura romana egittizzante, a dimostrazione dell’innamoramento nei confronti di quella millenaria ed elegante civiltà. Immancabili, nello stesso complesso museale, proprio sotto la grande pigna bronzea, due leoni del tempo di Nectanebo I (IV secolo a.C.) provenienti prima dal Pantheon e poi dalla Fontana dell’Acqua Felice, dove furono sostituiti da copie eseguite dallo scultore Adamo Tadolini. Quando andrete a visitare il Gregoriano Egizio, però, non fatevi ingannare dalle mummie! Studi condotti recentemente dai curatori dei Musei Vaticani hanno portato alla luce un imbarazzante segreto: sulla scia delle scoperte di Champollion e della moda egiziana alimentata anche, talvolta, da fanfaroni e impostori, il papa fu vittima di un clamoroso raggiro, e gli furono venduti due falsi. Che, comunque, restano in sede in quanto testimonianza preziosa di una storia del gusto e della cultura.
Dal già menzionato tempio di Iside in Campo Marzio provengono anche i due leoni in basalto ai piedi della Cordonata del Campidoglio: già collocati all’entrata della chiesa di Santo Stefano del Cacco, nel 1562 Pio IV li donò al popolo romano per decorare la salita al colle.

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Muovendosi ancora per il centro di Roma, in Via del Piè di Marmo, tra Sant’Ignazio e il Gesù, si trova un grande piede marmoreo, appunto, parte forse di un enorme acrolito. Non è dato sapere a quale divinità appartenesse ma, data la presenza del Tempio di Iside nell’area, non è da escludere si tratti proprio di lei. Dallo stesso tempio proverrebbe una graziosa gatta di marmo, ignorata da tutti i passanti, che oggi sta appollaiata su un cornicione di Palazzo Grazioli prospiciente Via della Gatta: potrebbe trattarsi di Bastet, dea gatta adorata per la sua indole materna e protettiva.

Autore: Mariasole Garacci

Fonte: www.artribune.com, 12 set 2022

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