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INGHILTERRA. Il cannibalismo preistorico, tra utilitarismo e ritualità.

14.700 anni fa, nella caverna di Gough, nella contea inglese del Somerset, l’ora di pranzo non era per i deboli di cuore. Nel menù c’erano esseri umani, e a consumarli erano i loro simili.
Gli antropologi hanno cercato a lungo le prove del cannibalismo nella documentazione fossile, ma stabilire se avvenisse davvero e perché gli esseri umani si mangiassero reciprocamente non è stato semplice. Una nuova analisi ha permesso ora di arrivare a una maggiore comprensione di come fosse praticato nel sito di Gough, suggerendo inoltre che durante la preistoria il cannibalismo sia stato più comune di quanto si pensasse.
Gli studi sui resti fossili del cannibalismo si sono tradizionalmente concentrati sui segni di danni alle ossa causati da strumenti in pietra, come scalfitture dovute al taglio dei muscoli e segni di percussione per estrarne il nutriente midollo, nel tentativo di distinguere le conseguenze dell’attività umana da quella di grandi felini e altri carnivori. Ma capire se un corpo umano è stato scarnificato per motivi rituali oppure alimentari è difficile. Di recente, quindi, gli scienziati hanno iniziato a cercare i segni di denti umani, una traccia che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni.
Tracce di incisioni e percussioni su un cranio della grotta di  Gough (Cortesia Bello et al. / PLoS ONE). Sfruttando i criteri sviluppati da Palmira Saladié e colleghi dell’Istituto catalano di paleoecologia umana ed evoluzione sociale di Tarragona, in Spagna, per individuare segni di denti umani sulle ossa, alcuni ricercatori hanno riesaminato i resti umani della grotta di Gough. In occasione dell’annuale convegno della Società europea per lo studio dell’evoluzione umana che si è tenuto a Bordeaux il 22 settembre la tafonomista Silvia M. Bello [la tafonomia è la branca della paleontologia che studia la formazione dei fossili a partire dai processi di decomposizione] del Museo di storia naturale di Londra ha presentato i sorprendenti risultati della ricerca.
Silvia Bello ha riferito che le ossa della grotta provengono da almeno quattro persone, tra cui un bambino di circa tre anni, e mostrano numerose tracce del rosicchiamento da parte di esseri umani, oltre a chiari segni di taglio con strumenti di pietra. In effetti, la maggior parte delle ossa al di sotto del collo reca rivelatrici tracce di denti. I cannibali sembrano aver sfilettato i muscoli principali con coltelli di pietra per poi strappare con i denti le parti rimaste. Anche le estremità delle falangi e delle costole sono state rosicchiate, forse per poterne aspirare la modesta quantità di midollo presente.
Curiosamente, a differenza delle altre, nessuna delle ossa del cranio mostra segni di denti; sono state però scarnificate con grande accuratezza. Ogni frammento di tessuto molle, tra cui occhi, orecchie, guance, labbra e lingua, sembra essere stato meticolosamente rimosso con strumenti di pietra. Tuttavia, i cannibali si sono presi la briga di conservare la calotta cranica, separarla dalla faccia e sagomarne i bordi in modo da produrre ciò la Bello e i suoi colleghi in precedenza avevano indicato come coppe e ciotole di un tipo già noto nei resoconti etnografici.
Nel sito di Gough ci sono prove inequivocabili della produzione intenzionale di tazze dei crani, simili a quelle rinvenute nei siti di Le Placard e Le Isturitz, e testimoniate da resoconti etnografici moderni (Cortesia Bello et al. / PLoS ONE). Nel complesso, i dati provenienti dalla grotta di Gough hanno indotto la Bello a ritenere che il cannibalismo avesse uno scopo sia pratico sia rituale. Il cannibalismo per mera sopravvivenza, osserva, sembra improbabile perché il sito contiene un gran numero di resti di animali, indicando che la gente non moriva di fame. Inoltre, se il consumo di carne umana fosse stato dovuto a esigenze alimentari, probabilmente non sarebbe stata applicata tanta cura nel rimuovere il cervello. La Bello ipotizza invece che il cannibalismo fosse una tradizione: gli abitanti di Gough mangiavano i corpi dei loro simili per nutrirsi e non sprecare della buona carne, per poi produrre coppe a scopo rituale con i crani. In definitiva, la Bello sospetta che, alla luce dei vantaggi pratici, in passato il cannibalismo fosse relativamente comune.
Nel dibattito seguito alla presentazione della ricerca, rispondendo a chi chiedeva quali prove vi fossero che il modellamento a coppa del cranio fosse rituale e non utilitaristico, la Bello ha fatto notare, tra l’altro, che i resoconti storici indicano che gli aborigeni australiani che usavano i crani per produrre coppe d’uso quotidiano sapevano esattamente da quale individuo proveniva di ognuna di esse. E ha aggiunto che il cranio del bambino, pur non essendo un recipiente utile per contenere liquidi perché le linee di sutura non erano ancora completamente saldate, è stato lavorato esattamente allo stesso modo dei crani adulti: un’altra indicazione che queste coppe avevano un significato rituale.
La Bello ha infine osservato che, adesso che esiste un metodo per identificare le tracce di denti umani, sarà possibile scoprire ulteriori prove di cannibalismo nei reperti fossili dei nostri antenati, riesaminando i siti in cui vi sono siti evidenze non certe di cannibalismo e controllando la presenza di morsi umani sulle ossa.

(La versione originale di questo articolo è apparsa su scientificamerican.com il 20 settembre).

Autore: Kate Won

Fonte: Le Scienze.it, 04 ott 2012

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