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Giuliano CONFALONIERI. Storia.

Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso l’Editore Mondadori pubblicò una nutrita serie di dispense monografiche da raccogliere per formare l’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica. Una dispensa è dedicata all’archeologia sottomarina, scritta completamente da prof. Nino Lamboglia, valido ricercatore, direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, docente universitario e poliglotta, autore di numerosi volumi storici. Riversò la sua esperienza di archeologo terrestre fondando il CSAS (Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina) ad Albenga che operò sperimentalmente, dal 1959 al 1963, con la corvetta militare Daino; nel 1968 armò un cargo di 158 ton. ribattezzato Cycnus, da Cicno il leggendario re dei liguri, equipaggiato con un impianto televisivo a circuito chiuso, un ecogoniometro, un generatore autonomo, la campana Galeazzi ed una camera di decompressione. Se fosse ancora presente, avrebbe visto il suo lavoro di studioso onorato con i busti scultorei innalzati in Sardegna ed in Catalogna, nonché la dedica di un carruggio nel centro storico ingauno. Come uno dei precursori delle tecniche di prospezione sottomarina, sarebbe stato ancora più soddisfatto dal ritrovamento nel 2003 di un secondo relitto di nave oneraria romana in seguito alle indagini del gruppo sommozzatori dei Carabinieri di Genova. Una delle ultime aspirazioni dello studioso ligure era di riportare alla luce il relitto scoperto sul fondo del mare alla foce del fiume Centa negli anni Cinquanta del XX secolo, proteggerlo dentro un grande bacino trasparente riempito d’acqua per non farlo decomporre esponendolo all’aria e quindi farne diventare attrazione turistica e meta di studio. Aveva la personalità e la professionalità per ottenere un ottimo risultato ma il destino ha disposto in modo diverso: nel 1977 la sua vettura precipitò in mare da un molo del porto di Genova a causa della nebbia.
Mi sembra interessante proporre qualche estratto del vecchio testo per fare confrontare agli specialisti le tecniche di mezzo secolo fa con quelle di oggi.

Sistemi di prospezione.
Escludendo le scoperte casuali da parte dei singoli e i dati derivanti da recuperi effettuati da pescherecci con le reti a strascico (però sempre approssima­tivi nel raggio di più chilometri quanto alla localizzazione del reperto), i sistemi finora sperimentati con qualche suc­cesso per `rastrellare’ una determinata zona e rilevare gli elementi di interesse archeologico e di studio affioranti su un fondale sono i seguenti:
1) l’ala subacquea, costituita da un traino per due o quat­tro sommozzatori guidati dalla superficie su un campo to­pograficamente delimitato in precedenza con boe o gavitelli (non più di 100 m x 500 m) e su percorsi segnati sulla carta dall’assistente in sincronia con le varie traiettorie percorse; trainati a velocità moderata i sommozzatori riescono normalmente a vedere, a 10 m dal fondo, gli elementi interessanti, e a segnalarne immediatamente la posizione in superficie con lo sganciamento di una boetta; il sistema è natu­ralmente valido soprattutto per i fondali relativamente unifor­mi e richiede un certo addestramento da parte dei sommozzatori per evitare ostacoli improvvisi: esso si è rivelato specialmente efficace nel riconoscere, a Baia, l’andamento del­l’antica linea di costa e il limite dei ruderi sommersi;
2) il motoscooter autonomo, che rende indipendente il sommozzatore dal traino della superficie; esso è stato pure sperimentato, ma con minor esito, per la difficoltà di orientamento sul fondo, poiché il mezzo impegna il sommozzatore più nel pilotaggio che nell’osservazione;
3) il batiscafo autonomo, realizzato in varie forme, ma che non ha dato finora risultati pratici per la stessa ragione di cui sopra;
4) lo scandaglio ultrasonoro, installabile a bordo di una nave o altra imbarcazione per registrare le ondulazioni e le asperità anche minime del fondale; questo, che rappresenta il metodo più sicuro, ma cieco, è stato pure sperimentato più volte, in luogo dell’ala subacquea, per segnalare eventuali cumuli di anfore o di relitti anche recenti, ma la verifica immediatamente successiva ha dimostrato spesso trattarsi di semplici scogli o altro privo d’importanza. Tale tecnica si è dimostrata invece più utile per ottenere rapidamente il profilo di un relitto affondato, già identificato in precedenza; una serie di `passaggi’ sulla verticale del giacimento consente di rilevarne e di tracciarne immediatamente l’estensione e le sezioni, comprovabili nei particolari con successive immersioni. Con tale sistema è stato rilevato, fin dal 1959, il profilo della nave romana di Albenga; sono state così definite le sagome longitudinale e trasversale e sono stati gettati i capisaldi per un successivo rilevamento dettagliato; lo stesso sistema può essere applicato ai resti murari sommersi con una sensibilità e un’approssimazione che raggiunge i 10-20 cm, ma deve essere costantemente preceduto da una prospezione oculare per avere la certezza che si tratti di un accumulo con interesse archeologico e non di un accidente qualsiasi del fondale.

Sistemi di scavo.
Ai problemi del rilievo archeologico sono strettamente associati quelli dello scavo, in quanto sul fondo del mare, come in terraferma, relitti di navi e opere umane di ogni genere sono soggetti a un processo di degradazione o distruzione totale sommato a un progressivo seppellimento, la cui curva di intensità è legata a fattori di natura fisica, quali le alluvioni o l’azione delle correnti, e condizionata dalla profondità. Per questo ogni scavo archeologico sottomarino dovrebbe poter fruire dell’ausilio preventivo e costante di un geologo subacqueo. La necessità dello scavo archeologico in mare si è proposta fin dal primo delinearsi della ricerca archeologica sottomarina, essendo apparso evidente, dopo le prime prospezioni e scoperte, che gli elementi affioranti sul fondale sono indizi appena superficiali e costituiscono le parti più deteriorate e concrezionate di ogni giacimento: soltanto sotto la sabbia è possibile trovare oggetti integri, strutture ben conservate, e lo scafo delle navi ancora in situ. Escluso a priori l’impiego di sistemi rapidi ma brutali e distruttori come la benna, normalmente usata per recuperare navi moderne (la benna fu impiegata nel 1950 per qual­che giorno ad Albenga dall’Artiglio, e subito abbandonata), è prevalso il criterio del dissabbiamento lento e graduale, che può essere svolto con due mezzi meccanici abbastanza potenti, nati e perfezionati appunto per lo scavo subacqueo:
1) la ‘sorbona’ (suceuse dei francesi), costituita da un tubo flessibile o semirigido, collegato con la superficie, e da una ‘testa’ aspirante regolabile in vario modo a seconda delle necessità, azionata mediante una manichetta e un compressore a bassa pressione collocato a bardo;
2) lo ‘scavafango’, pompa aspirante-premente, munita di un boccalino anch’esso regolabile, assai più maneggevole della sorbona.
Entrambi i sistemi hanno inconvenienti per ora rimasti insoluti. La sorbona consente uno scavo ‘pulito’ e con visi­bilità costante da parte del sommozzatore che la impiega, ma deve scaricare a distanza il materiale aspirato, per non intorbidare il campo di lavoro e riportare il materiale sul fondo; il suo uso è tanto più complesso e facile a incidenti meccanici quanto più aumenta la profondità e la lunghezza del tubo; anche se munita di una protezione all’imbocco, non evita di aspirare oggetti fragili e delicati e di asportare parti essenziali, ad esempio, del legno o del rivestimento di una nave; consente peraltro, utilizzando un crivello galleggiante a debita distanza dal campo di lavoro, il recupero anche di un minuto oggetto o frammento, e quindi uno scavo ca­ratterizzato da un rigore assai prossimo a quello degli scavi terrestri. Conviene avere a disposizione sorbone di due o tre misure, una grande e una o due minori. La sorbona portatile e autonoma, pure sperimentata in più occasioni, si è rivelata di difficile impiego sistematico. Lo scavafango ha il vantaggio di una migliore regolazione del getto d’acqua e consente quindi meglio della sorbona l’isolamento e il ri­pulimento in situ di ogni oggetto anche delicato; esso crea peraltro nugoli di sabbia e attenua o annulla la visibilità per il sommozzatore che lo manovra; per ovviare all’inconveniente, l’unico sistema valido sarebbe quello di usare contemporaneamente la sorbona e lo scavafango, ma ciò comporta l’azione combinata di più sommozzatori e un notevole grado di addestramento tecnico.
Lo scavo archeologico in mare, per ottenere risultati archeologicamente validi, esige il controllo e la vigilanza diretta sul fondo da parte dell’archeologo, che è il solo capace in molti casi di interpretare ciò che affiora e ciò che emerge gradualmente con lo scavo; ed esige un riferimento topografico costante rispetto al variare continuo del campo di scavo, per eseguire fotografie e rilievi dei pezzi in situ prima di affrontarne il recupero. Tale esigenza può essere risolta in vari modi. Il più diretto sembra a prima vista quello di impiegare sommozzatori archeologi, particolarmente addestrati e specializzati nella tecnica dell’immersione; connubio che appare tuttavia fino a oggi raro ed eccezionale da realizzare, e che in ogni caso distoglie la mente direttiva dallo scavo e dalle operazioni che vi si connettono verso quel particolare stato psichico, indubbiamente limitativo di talune facoltà mentali, che nasce sia dall’euforia della profondità sia dalla necessità di autocontrollo nell’immersione.

Un mezzo indiretto piuttosto efficace potrebbe sembrare la televisione subacquea, installata a bordo della nave appoggio e capace di tenere sotto controllo visivo tutto l’andamento delle operazioni, e combinata col telefono subacqueo per trasmettere i necessari ordini. Essa rappresenterebbe l’optimun se, per impiegarla e tenerla costantemente a contatto col campo di lavoro, non fosse necessario l’impiego di più persone e un addestramento prolungato e tutto particolare per i singoli sommozzatori.
Fra tutti i sistemi sperimentati finora, il più pratico è apparso la campana batiscopica, il cui modello archeologico, noto come ‘campana Galeazzi’, dal nome del costruttore, è stato appositamente costruito nel 1961 per la nave ‘Daino’ e studiato dal Centro sperimentale di archeologia sottomarina con caratteristiche tali da servire a un duplice impiego: chiusa, con un portello stagno sul fondo, essa consente agli archeologi (uno o due, più un tecnico per la manovra) di scendere sul fondo e di fare tutte le osservazioni necessarie, prima o durante il lavoro, attraverso una serie di oblò che hanno come solo difetto la distorsione obliqua della visuale (difetto ora corretto con un oblò supplementare orizzontale sul fondo); aperta, serve normalmente da camera di decompressione per i sommozzatori al termine di ogni tempo di immersione, consentendo non solo di prolungare nei limiti massimi fisicamente sopportabili la durata dell’immersione stessa, ma anche di comunicare a bordo i risultati del lavoro svolto e permettere l’immediata partenza della squadra successiva.
La campana batiscopica offre inoltre un grande ausilio di sicurezza agli operatori subacquei, mettendo a loro disposizione, sul fondo stesso del mare, un assistente infermiere, che ha anche il compito di vigilare sullo svolgimento del lavoro a ciascuno assegnato.

Giuliano.confalonieri@alice.it

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