La seconda domenica di maggio da secoli segna l’inizio delle festività religiose e civili in onore del Santo Martire San Liberato, patrono del villaggio di Calvisi nel comune di Gioia Sannitica in provincia di Caserta.
Può apparire ciò qualcosa di normale nell’ambito del Cattolicesimo, della fede, di usi e costumi a questa legata. Ma la ripresa di un particolare, ma semplice rito, che mancava da circa cinquanta anni, significa un ritorno alle radici storiche del paese stesso ma anche nei rapporti sociali, economici ed anche religiosi di due comunità del Matese, Calvisi appunto e Cusano Mutri nella provincia di Benevento.
In linea d’aria i due abitati distano circa 5 chilometri e si guardano specularmente divise dalla montagna che le separa. I collegamenti tra le due realtà sono avvenuti per secoli attraverso i tratturelli della transumanza che di fatto collegavano le due realtà, nella comune ed antica arte della pastorizia. Ambedue oggi all’interno del costituito Parco Nazionale del Matese, per una involontaria coincidenza temporale hanno ripristinato un uso ed un rito perso mezzo secolo fa.
Il recupero del rito ecclesiastico dopo circa cinquanta anni segna un recupero di una tradizione che affonda le sue radici nel periodo normanno, quando nel 1134 Ruggero II di Sicilia donò il castello di Carattano e 400 ettari di territorio al monastero benedettino di San Salvatore di Telese.
Il monastero, nasce come cella monastica dipendente dall’Abbazia benedettina di Montecassino, ad opera di Arechi II Duca di Benevento tra gli anni 774 e 787 nel luogo conosciuto come Casale San Salvatore.
La sua importanza e crescita avviene nell’XI secolo quando Roberto Drengot, conte di Alife, finanziò il cantiere abaziale tra il 1065 ed il 1075. Nel 1098 l’arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra Sant’Anselmo d’Aosta, giunse a Roma, ed in seguito su invito dell’abate Giovanni, venne ospitato presso l’abbazia dove secondo la tradizione vi scrisse una parte della sua opera “Cur deus homo”.
A Giovanni succedette Gervasio, citato in un documento papale dell’anno 1113, e quindi l’Abate Alessandro Telesino, uomo colto ed intraprendente. Ad Alife l’Abate conosce Matilde d’Altavilla, sorella di Ruggero II di Sicilia e moglie di Rainulfo II Drengot, conte di Alife. Diventato confidente e confessore personale della contessa, scriverà poi su invito di Matilde, le gesta di Ruggero il Normanno, la “Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie”, biografia del re Ruggero II di Sicilia.
Ruggero ebbe occasione di visitare l’Abbazia nel 1134 su invito del cognato. In quel periodo i due erano in una fase di riappacificazione, dopo un periodo di attrito dovuto alla volontà di indipendenza di Rainulfo dal peso reale. Rainulfo aveva inseguito un sogno, realizzandolo di fatto, creare un suo Stato Normanno nell’area dove dalla fine del X secolo si era insediata la sua famiglia. Nella realtà il progetto era realizzato ed il suo stato si estendeva su una area di oltre settanta chilometri quadrati che abbracciava l’intera Media Valle del Volturno, così come è oggi partendo da Prata, la Valle Telesina con Sant’Agata dei Goti a chiudere la Valle dell’Isclero, il punto estremo orientale del suo “Stato”.
Nell’occasione della visita il sovrano donò al monastero i feudi di San Salvatore, la collina della Rocca, il feudo di Carattano e Villa degli Schiavi riconoscendo agli abati il diritto di amministrare la giustizia. A nulla valse la silente protesta di Rainulfo il quale si sentì defraudato nel suo potere e nella sua immagine, ma Ruggero rimaneva pur sempre il Re ed ai suoi occhi il cognato era un suo feudatario. La vicenda in seguito ebbe ben altro seguito, ma questa è un’altra storia. La particolarità della donazione fu non solo territoriale per una estensione di oltre 400 ettari, ma anche la donazione del castello di Carattano, che nel progetto di Rainulfo era una importante struttura a controllo della diramazione della via Latina collegante Alife con Telese, le due città gemelle poste di fronte tra la valle Alifana e Telesina. È presumibile che il confine del feudo ecclesiastico partisse dalla sorgente del torrente Arvento in territorio di Calvisi, ne seguisse in parte il percorso alla sua sinistra, per poi deviare verso la collina di Carattano ove era ubicato il castello e seguendo poi il corso del fosso di Carattano, fino a valle all’intersezione del torrente di ponte Storto che corre a circa due chilometri dalla parte opposta all’Arvento. In pratica è presumibile che il territorio feudale fosse di fatto all’interno dello spazio compreso tra i due torrenti, comprendendo così anche il villaggio di Calvisi, unico abitato presente nell’area donata oltre al castello.
Non esiste di fatto una documentazione precisa dei confini del feudo ecclesiastico; il più antico documento che la riguarda è un diploma di Re Carlo II di Angiò sottoscritto nel 1295 a favore dell’Abate, per il possesso di varie terre fra cui il castello di Carattano, con le prerogative solite allora e consentite dai Capitoli del Regno.
Un singolare documento del 1343 mostra la giurisdizione dell’abate col banco di giustizia in quella che fu la ribellione degli abitanti del castello.
Nei primi giorni dell’Ottobre 1343, l’abate Vito, si recò a Carattano accompagnato dai suoi ufficiali baronali, per amministrare giustizia agli uomini del castello. Ma fu accolto con urla e minacce: “Muoia l’abate! Muoiano i suoi ufficiali, e chiunque altro voglia amministrar giustizia per essi!”. Sotto una pioggia di pietre lo cacciarono dal castello, fu di fatto una sollevazione.
L’istituzione del feudo ecclesiastico, anche se spina nel fianco per Rainulfo ebbe per le popolazioni del territorio dei vantaggi importanti poiché nell’ambito dei rapporti commerciali vi erano tassazioni e dazi favorevoli. Con la caduta in disgrazia e la morte di Rainulfo il territorio, anche nei cambiamenti vassallatici che seguirono, restò di fatto feudo ecclesiastico. Non esiste di fatto una documentazione precisa dei confini del feudo; il più antico documento che lo riguarda è un diploma di Re Carlo II di Angiò sottoscritto nel 1295 a favore dell’Abate, per il possesso di varie terre fra cui il castello di Carattano, con le prerogative solite allora e consentite dai Capitoli del Regno.
Nonostante tali avvenimenti restò comunque nelle rendite dell’abbazia fino al 1459 quando i baroni tramarono contro il sovrano Ferdinando I di Aragona, chiamando alla conquista del reame il duca Giovanni d’Angiò.
Nel Dicembre del 1459 negli scontri tra il conte di Fondi Onorato Gaetani, fedele a Ferdinando, e Marino Marzano duca di Sessa, fautore di Giovanni d’Angiò, il castello fu preso dalle truppe del Gaetani e raso al suolo poiché l’Abate di San Salvatore aveva appoggiato l’angioino.
Cessato come feudo ecclesiastico, il territorio ebbe una storia legata a ripetute donazioni, inglobato nell’Università di Gioia la popolazione conservò gli usi civici ma andò a perdersi quel senso di autonomia, che però si conservò nella memoria popolare, in particolar modo per Calvisi il quale si è sempre sentito estraneo al capoluogo.
In questo il villaggio in particolare aveva da tempi immemori, rapporti di scambi con Cusano (attuale Cusano Con Mutri) facilmente raggiungibile in meno di due ore di cammino attraverso i tratturelli della transumanza, trovandosi le due realtà di fatto specularmente una di fronte l’altra separate dalle montagne alle loro spalle. Nei rapporti commerciali, soprattutto in primavera con la vendita di castagne in particolare, ci si recava a Calvisi passando da Carvarusio e giungendo infine all’Arvento appena fuori dell’abitato di Calvisi, e qui si attendeva il giungere del delegato ecclesiastico per l’entrata nel feudo che presumibilmente avveniva nei pressi dell’attuale ponticello.
La consuetudine che forse nel cinquecento era perduta, si presume fu ripresa con il giungere nel 1687 delle spoglie di San Liberato, quando poco per volta la venerazione nel santo fu seconda solo alle venerazione delle reliquie del Pontefice Sisto I ad Alife.
La seconda domenica di maggio giorno della festività di San Liberato i pellegrini provenienti da Cusano giungevano sul far della tarda mattina sull’antico confine, l’Arvento, che ricordiamo fu confine tre le tribù Sannite dei Pentri e dei Caudini prima, delle municipalità Romane di Allifae e Telesia, dei Gastaldati Longobardi di Alife e Telese ed infine delle Diocesi di Alife-Caiazzo e Telese- Cerreto- Sant’Agata dei Goti. Qui attendevano il giungere del parroco che li accoglieva e li guidava fino al santuario in paese.
Tale consuetudine è esistita fino a circa cinquanta anni fa, quando ancora a ricordarla, la processione del Santo patrono delle 11 del mattino, giungeva al ponticello dell’Arvento sostando qualche minuto ad osservare i fuochi di artificio per ritornare verso il villaggio. Di fatto il prolungamento della processione, la sosta ed i fuochi pirotecnici andavano a ricordare quel giungere nel feudo ecclesiastico nel XII secolo traslato poi nella forma del pellegrinaggio e nel rispetto, del rapporto antico tra le due comunità che nel tempo non si è mai spento del tutto.
Il ritorno quest’anno del rito significa il recupero di una tradizione molto più antica di quel che si pensa, ma soprattutto giunge in un momento importante per i due territori in considerazione dell’istituzione del Parco Nazionale del Matese, venticinquesimo parco nazionale d’Italia dove secondo le regole è di fondamentale importanza la conservazione di usi costumi e tradizioni.
Autore: Sandrino Luigi Marra – sandrinoluigi.marra@unipr.it