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CIVIDALE DEL FRIULI. Museo Cristiano e del Duomo.

Entrando nella prima sala del Museo appare stagliato solenne sul fondo l’ottagono in antico marmo greco del Battistero del patriarca Callisto. Incantata presenza monumentale. Ritmica armonia delle otto colonnine come steli fioriti e della pergola ad archetti orlati da fasce avvolgenti di tralci vitinei e grappoli d’uva.  Alla base i plutei racchiudono la vasca per l’immersione dei catecumeni. Intrecci di grafie allegoriche, stilizzazioni di montagne e di getti d’acqua zampillanti, palme, rosette, grifi dalle lunghe ali a punta ricurva e coda guizzante, leoni, mostri marini, pavoncelli, cervi alla fonte, agnelli, serpenti, candelabri, crocifissi, calici, il volto d’angelo, il leone, l’aquila, il bue degli evangelisti, l’albero della vita, nastri d’iscrizioni, compongono una stralunata fantasia di ricami e filigrane che il recente restauro ha reso limpidi e squillanti.
In primo piano fa da quinta un’altra celebre opera dell’età longobarda, l’Ara di Ratchis, voluta, in omaggi al padre Pemmone, dal duca che la scritta lungo il lato superiore del massiccio parallelepipedo in pietra del Carso qualifica con il misterioso aggettivo hidebohorit: significa forse, nella lingua dei guerrieri dalle lunghe barbe, cavaliere valoroso irruente in battaglia. E’ diventata un logo abbondantemente fruito in funzione promozionale e turistica la lastra della facciata, con la grandiosità barbarica del Trionfo di Cristo nella mandorla circondata da un volteggiare d’ali e di volti angelici. Eppure a trovarsi di fronte all’originale si resta storditi, come davanti a cosa del tutto nuova, dalla piatta secchezza della concitazione lineare, dall’ horror vacui decorativo che annulla ogni senso dello spazio, dalle deformazioni espressionistiche, dalla violenza brutale, dalla “fissità sbalordita” come l’ha definita Giuseppe Bergamini, e dalla straordinaria forza evocativa delle immagini. Uguale stupore destano le lastre laterali: l’arcaica, pesante, onirica, e potentemente poetica Visitazione a sinistra, a destra la fiabesca, genialmente distorta, Epifania con i magi vestiti all’orientale. Anche qui il restauro ha ridato lucentezza ai testi figurati, riportando in evidenza le tracce di originali policromie: minio, lapislazzuli, porpora, verde smeraldo.
Nei lacerti d’affreschi strappati e restaurati, disposti all’interno della parete d’ingresso, spicca il riquadro con le Sante Maria Maddalena e Sofia accompagnate da Fede, Carità e Speranza, databili fra l’XI e il XIII secolo. Figure frontali – più grandi quelle delle due sante, che fanno da assi portanti della composizione – di colori fra il bruno e il rossiccio come velati dai secoli, una deliziosa scansione miniaturistica di geometriche fughe di panneggi e di decori tessili che paiono generarsi da se stessi all’infinito, una grazia antica di lauda sacra su neumi e sequenze di monodia gregoriana.
Nell’allestimento mussale curato dall’architetto Giulio Avon e dal suo studio, su incarico dell’arciprete monsignor Guido Genero, le opere diventano protagoniste di una drammatizzazione teatrale del tempo. La loro espressiva collocazione, la spazialità meditata, l’illuminazione “creativa”, gli effetti scenografici accentuati dal grigio scuro delle pareti che ne evidenziano lo stacco visivo in un’atmosfera di ovattata sospensione, trasformano la visita in una seducente avventura immaginativa. Curatore scientifico dell’impresa è stato lo storico dell’arte Claudio Mattaloni.
Ben diverso, dunque, dal vano addossato nel 1946 al lato sud del Duomo si presenta il Museo recentemente inaugurato. Pareva allora un deposito informe di reperti. Gli spazi attuali quadruplicati e l’impianto generale li hanno resi vivi, ne hanno valorizzato il potere di comunicazione, hanno come restituito loro l’anima.
Fulcro emotivo della seconda sala è la Cattedra patriarcale datata tra il IX e l’XI secolo. Composta di marmi di epoche diverse ha una struttura spoglia, semplice, ascetica. Richiama i severi cerimoniali medioevali, e pare trasmettere qualcosa dello spirito della tragedia di Thomas S. Eliot Assassinio nella cattedrale. Il dossale termina in un triangolo smussato ornato di una pigna liscia. Altre due coppie di pigne si trovano alle estremità dei semicerchi delle fiancate, mentre gli strani supporti ovoidali adorni di margherite, che fungono da piedi anteriori, sono stati aggiunti probabilmente nel XVII secolo. Sulla cattedra, tra il 1077 e il 1412, ricevettero l’investitura ventisei patriarchi. Le bacheche che circondano la cattedra raccolgono l’affascinante selezione di oltre una trentina di suppellettili sacre e di oreficerie – tra reliquiari, ostensori, crocifissi, paci, statuine, ampolle, navicelle – appartenenti al Tesoro del Duomo, riportate alla fruizione pubblica dopo decenni di esilio nel caveau della Banca di Cividale.
Per assicurare una buona lettura degli oggetti di piccole dimensioni l’architetto Avon ha utilizzato un sistema di specchi e di riproduzioni ingrandite. Tra i pezzi di maggior suggestione spiccano le capselle in lamina d’argento dell’VIII secolo. Chi ha una certa età ricorda le descrizioni che ne dava con teatrale eloquio ricercato e sonoro, di plastica consistenza, il professor Calo Mulinelli, direttore del Museo Nazionale Archeologico cividalese, storico, critico appassionato e facondo divulgatore d’arte. Delle due prime egli esaltava la fattura alto-medievale semibarbarica del Cristo in croce e una targhetta della Natività assonante ai rilievi dell’ Ara di Ratchis. Della terza (IX secolo) sottolineava i rudi caratteri stilistici dei dodici Santi incorniciati da archetti di foggia bizantina disposti sulle quattro facce. Merita pure particolare riguardo l’Evangelario dell’Epifania adoperato durante la Messa dello Spadone, con la romanica Crocifissione (XIII secolo) nella faccia anteriore in argento sbalzato e dorato attribuita a un artista locale veneto-bizantineggiante, accanto alla Spada del patriarca Marquardo (1366) dalla quale la solenne messa epifania prende il nome. Fulgido nel rame dorato il Salvatore in trono s’imposta possente e maestoso in un’altra Copertina d’Evangelario del Duecento. E richiami romanici ha la testa di lupo in cui culmina il riccio del Pastorale dorato del XII secolo. Poi il Calice ansato con patena del tempo degli Ottoni (IX-X secolo); due rarissime Pissidi del Trecento, una in noce di cocco e argento, l’altra in legno lavorato al tornio con immagini bizantineggianti dipinte a smalto; la Testa reliquiario di San Donato (1374), opera di oreficeria insigne per forza e dignità espressive del cividalese di origine toscane Donadino di Brugnone; la nordica statuetta del Trecento, donata dal patriarca Nicolò di Lussemburgo; la cinquecentesca Pace Grimani a forma di altarolo, di fattura veneziana, con la solare targa centrale contenente il finissimo, lieve, spumoso modellato della Deposizione ambientata in un largo paesaggio culminante nello stiacciato del Golgota, e la cornice ornata di gemme e di cammei.
La scala in legno conduce alle due sale del primo piano. Nella prima sala sono raccolti alcuni capolavori pittorici. Sulla parete centrale domina L’apparizione di Cristo alla Maddalena di Giovanni Antonio da Pordenone. Gesù, in corta festicciola rosa-carminio, curiosamente atteggiato a passo di danza, e la giovane donna dal costume gonfio e pomposo inginocchiata entro un suggestivo paesaggio arcadico, dicono l’emergere di affettazione rusticane in un contesto figurativo colto che rompe schemi tradizionali con gestualità a volte contradditorie, ma sempre vitali. Di lato due tele realizzate nel 1584 dal Veronese per la chiesa di San Giovanni in Xenodochio. Dal San Rocco inquadrato entro una scena boscosa, che la voce popolare indica come autoritratto dell’artista, spira un virile realismo contadino di solido impianto. La Madonna con Bambino su un trono di morbide nubi attorniato da cherubini ha soffusa dolcezza. Sempre a San Giovanni in Xenedochio sul soffitto della sacrestia era collocato il dipinto sagomato Gloria della Vergine di audace taglio prospettico tiepolesco, attribuito al pittore veneto del Settecento Francesco Zugno, mentre in precedenza veniva dato a Giovanni Battista Canal. Apprezzabile infine la cinquecentesca Madonna del latte, che lascia trasparire influssi di Pellegrino da San Daniele e del Pordenone.
Conclude l’itinerario alla grande la sfilata di paramenti liturgici nell’ultima sala: un corale sontuoso di sete, lampassi, taffetas, velluti, damaschi, broccati e broccatelli: pentagrammi di colori e di ricami. Accanto al Piatto e bacile damaschinato di fattura orientale si dispiega la favolosa Pianeta Barbaro di manifattura turca. Seguono, in successione, la trecentesca Mitria di San Paolino in broccato di seta, oro, argento, pietre preziose incastonate, e piviali e funicelle e veli che arrivano fino al Settecento, prodotti nelle tessiture di Venezia, Lucca e Firenze, di Como e di Milano, di Vienna e del Tirolo, di Tours e di Lione.
Una sbalorditiva gioia degli occhi, un tempo ritrovato di antichi sfarzi, di solenni cerimoniali.


Info:
orario: 10-13 e 15-18 (da mercoledì a domenica; lunedì e martedì, chiuso).


Fonte: Messaggero Veneto 06/08/2008
Autore: Licio Damiani
Cronologia: Arch. Medievale

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