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Barbara CARMIGNOLA: Testimonianze della tecnica orafa in età romana.

I reperti di oreficeria e argenteria, i tesori rinvenuti nel territorio del Friuli-Venezia Giulia ci parlano della lunga storia di una regione che da duemila anni a questa parte, dalla fondazione della città di Aquileia che Roma volle per difendere i suoi confini settentrionali dalle invasioni barbariche, si è affermata quale punto d’incontro e fusione di popoli e culture diverse, latine, germaniche e slave.

Segnato dal patriarcato di Aquileia, dal ruolo svolto nella regione dalla Repubblica marinara di Venezia e, in anni più recenti, dal dominio della casata asburgica a Gorizia e nella città lagunare, il Friuli è patria di secoli di storia e di un patrimonio culturale non indifferente che si alimenta dal confronto tra le diverse etnie e tra i diversi culti religiosi, cattolico, ebraico, serbo e ortodosso.

Da sempre, in assenza di una ricca committenza laica, questa regione del Nord Italia ha visto crescere i suoi tesori artistici grazie a mecenati legati alla sfera religiosa. Ciò è utile a spiegare il perché del carattere prevalentemente sacro dei manufatti preziosi rinvenuti nella regione, per lo più utili all’abbellimento e all’arredo dei luoghi di culto che rappresentavano anche i principali luoghi della vita comunitaria, e serve anche a chiarire la destinazione di quella produzione orafa che si protrae almeno fino al primo settecento.

Negative ripercussioni su questa florida arte ebbero le invasioni ungare della prima metà del X secolo le cui nefaste conseguenze si risentirono finché i patriarchi di Aquileia, con il sostegno della casa di Sassonia, non risollevarono la situazione in cui versava la regione.

Il 1019 è un anno cruciale perché rappresenta la data in cui inizia, con il carinziano Poppo, il lungo periodo della successione dei patriarchi tedeschi che durerà in un modo praticamente ininterrotto fino al XIII secolo. Durante quest’epoca intensi furono i rapporti con la Germania che non poterono non influenzare, tramite la presenza sul territorio di oggetti di manifattura d’oltralpe facenti parte del corredo o del patrimonio di qualcuno, la pratica artistica che nella sua rinascenza è legata al periodo del risveglio culturale ottoniano.

Tra i reperti di origine nobile lavorati in età longobarda e carolingia che si conservano in Friuli, e in particolare a Cividale, ve ne sono alcuni degni di menzione perché esemplificativi della bellezza e della perfezione che seppero raggiungere questi uomini, spesso semplicisticamente definiti “barbari” in accezione peggiorativa in contrapposizione con la cultura di età classica, nell’ambito dell’oreficeria.

Il piccolo calice con patena conservato nel tesoro del duomo di Cividale e la coperta del salterio di santa Elisabetta collocata nel Museo Archeologico Nazionale della stessa città sono i due esempi che assumeremo a emblematica sintesi di quest’arte di epoca romanica che rappresenta un anello di quella lunga catena che dal classico porta ai nostri giorni.

Il piccolo calice ha il piede d’appoggio svasato con incise a bulino le figure dei quattro evangelisti seduti ciascuno su uno scranno nell’atto di tramandare la buona novella di Cristo. La modalità di scrittura, il pennino con cui vergano la carta, evoca la contemporanea attività dei monaci amanuensi che negli scriptoria si dedicavano alla trascrizione dei testi latini superstiti; il calice è quindi, sotto questo aspetto, anche una preziosa testimonianza indiretta di quest’antica attività.

< Sulla coppa sono saldati due piccoli manici impreziositi dalla splendida decorazione che li assimila a due tralci di uva che sorreggono le due figure bibliche di Abele e Melchisedech.

La patena ha un incavo centrale con dodici lobi che trovano corrispondenza, in un gioco di richiami interni, nei dodici lobi arcuati della sottocoppa. Nell’interno, attorno al clipeo crocesegnato con la raffigurazione della Manus dei nel gesto allo stesso tempo benedicente e giudicante con cui spesso Cristo viene ritratto, si legge l’incisione Dextera-Domini .

Il calice e la patena sono fusi in argento e poi ricoperti da uno spesso strato d’oro con la tecnica della doratura (che si è conservata quasi perfettamente) “ad amalgama” o “a fuoco”.

Le singole parti del calice, il piede, la coppa e le due anse, sono state realizzate con la tecnica della fusione a cera persa, la stessa, per intendere la perfezione di cui questi popoli erano capaci, con cui il grande orafo Benevenuto Cellini nel periodo cinquecentesco approntava il suo Perseo che sarebbe stato collocato a Firenze in Piazza della Signoria.

Il salterio di santa Elisabetta, altro splendido esempio della mirabile tecnica di lavorazione dei metalli in età ottoniana, presenta invece nella parte centrale la scena della Crocefissione realizzata in bosso intagliato a giorno su fondo d’argento e attorniata da una cornice con fregio niellato e sei tondi incisi in argento dorato rivestiti di smalti traslucidi in cui sono riconoscibili in alto l’Agnello simbolo di Cristo, ai lati gli emblemi dei quattro evangelisti (l’angelo, l’aquila, il leone, il toro) ed in basso un personaggio a mezzo busto con la mitra sul capo, scettro gigliato e calice sollevato come nell’atto di raccogliere il sangue del redentore che fluisce ai suoi piedi.

Quest’iconografia con il figlio di Dio sulla croce, i dolenti ai suoi lati e una figura genuflessa a raccoglierne il sangue vivificante, si affermerà nell’occidente cristiano nonostante il periodo iconoclasta e la lotta condotta contro la rappresentazione di Cristo come uomo morente nella sua debolezza e nudità, e continuerà, preponderante, nelle sue varianti, ad affollare le composizioni di età medievale (si pensi alla bellissima croce di Giotto che si trova in Santa Maria Novella) per essere ripresa anche in seguito, evoluta e modificata, nel periodo controriformista.

Autore: Barbara Carmignola
Cronologia: Arch. Medievale

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