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Antonio AIMI: L’evoluzione è un cespuglio di ominidi.

Così viene a cadere la linearità dell’albero genealogico.

Se pensate all’origine dell’uomo, dimenticate l’albero genealogico col suo bel tronco, i rami secchi che si perdono per strada e l’apice vegetativo che rappresenta il suo frutto più prezioso: l’ Homo sapiens sapiens, che saremmo tutti noi. La nuova metafora del processo di ominazione non è più un albero, ma un cespuglio abbastanza intricato, in cui non si vede molto bene. E dimenticate anche la popolare serie di disegni con uno scimmione caracollante che, camminando camminando, si trasforma in un bel fusto alto e muscoloso. Anche questa metafora è sbagliata, al posto della staffetta meglio immaginare un gruppo di cinque o sei corridori che fanno lunghi tratti di strada insieme, sgomitando e tagliandosi la strada. Già immagino i commenti di qualche insegnante che deve eroicamente spiegare ai ragazzini come l’umanità attuale sia uscita fuori da questo cespuglio (o da questo gruppetto): “Oddio! E adesso come facciamo?”. Non so che rispondere. “E’ la complessità, bellezza” verrebbe da dire.

Rassegnamoci, dunque, l’albero genealogico è finito per sempre. A distruggerlo non è stata tanto una nuova ipotesi scientifica, che si potrebbe sempre sperare di falsificare, ma una nuova sorprendente scoperta lanciata dalla prestigiosa rivista Nature il 28 ottobre scorso di cui La Stampa ha già dato ampia notizia.

Nell’isola di Flores, in Indonesia, un’équipe di antropologi indonesiani e australiani ha trovato i resti di sette individui di una specie umana finora sconosciuta, che è stata chiamata Homo Floresiensis e che nel dibattito antropologico è destinata, probabilmente, ad occupare la stessa importanza che finora ha avuto il Neandertal. “Se mi avessero detto che un’astronave aliena era atterrata a Flores, sarei stato meno sorpreso” ha dichiarato Peter Brown, il responsabile del gruppo di ricerca.

Ed effettivamente le caratteristiche degli uomini di questa nuova specie, che si ritiene discendano dall’Homo erectus (2.000.000 – 200.000 anni PP) (PP = prima del presente), hanno dell’incredibile: sono alti circa un metro, hanno un cranio che ha capacità di circa 380 cc, presentano una curiosa miscela di tratti arcaici e moderni e un’industria litica piuttosto sofisticata paragonabile a quella del Paleolitico Medio – Superiore. Tuttavia, quello che più sconcerta è il fatto che questa nuova specie umana non si colloca all’alba del processo di ominazione ma, sul piano evolutivo, ci è contemporanea. Se infatti la presenza dell’Homo floresiensis è documentata da 90.000 anni PP (ma il popolamento dell’isola potrebbe essere cominciato 800.000 anni PP), è certo che questi piccoli uomini erano ancora presenti 12.000 anni fa.

Quindi, alla vigilia del neolitico, quando i nostri nonni stavano per inventare l’agricoltura, la vita urbana, la scrittura e tutto il resto, a Flores viveva ancora un’altra umanità. Un’umanità che ora ci consente di capire alcuni snodi decisivi del processo di ominazione. In primo luogo capiamo, come si è detto più sopra, che i modelli lineari sull’origine dell’uomo vanno definitivamente abbandonati, perché l’idea che la comparsa di una nuova specie dalle caratteristiche più evolute sostituisca rapidamente quella precedente è semplicemente smentita dai fatti. Certo già si sapeva che esistevano diverse specie del genere Homo più o meno coeve, ma ora il fatto che l’Homo floresiensis ci sia arrivato così vicino, mostra che noi siamo solo una delle tante possibilità dell’evoluzione umana, certo quella vincente, ma non è detto la migliore.

In secondo luogo appare evidente la grande, sorprendente variabilità dei nostri cugini e dei nostri antenati. “Anche la nostra missione a Buia, in Eritrea – afferma Luca Bondioli, un antropologo del Museo Pigorini – ha recentemente scoperto dei reperti che, pur meno scioccanti di quelli di Flores, testimoniano la grande plasticità morfologica del genere Homo.

La donna di Buia (1.000.000 anni PP) è, infatti, un mosaico di tratti primitivi e derivati (una Cinquecento con i vetri elettrici, secondo la descrizione di uno degli scopritori), che contiene molte premesse verso l’uomo anatomicamente moderno accanto a molti tratti del passato”.

In terzo luogo la scoperta di Flores impone un freno all’ “imperialismo disciplinare” della genetica che pretende di ricostruire la storia naturale dell’uomo sulla base del confronto tra il patrimonio genetico delle diverse popolazioni attuali (in realtà vengono confrontate solo alcune decine di geni su un totale di 25-40 mila).

Solo qualche anno fa i genetisti del gruppo di Allan Wilson avevano sostenuto che mentre è certo che le loro molecole avevano avuto degli antenati, non era sicuro che i fossili dei paleoantropologi avessero avuto dei discendenti. “Ora i reperti di Flores – sostiene ancora Bondioli – dimostrano chiaramente quanto l’atteggiamento dei genetisti alla Wilson fosse sbagliato, non solo perché, oggi come oggi, gli alberi genealogici da loro ricostruiti si rivelano inesorabilmente contradditori (il DNA mitocondriale, il cromosoma X o quello Y collocano l’antenato comune dell’umanità attuale, rispettivamente 200.000 anni PP, 800.000 – 1.800.000 anni PP, 30.000 – 60.000 anni PP) o perché ignorano i fenomeni di convergenza genetica (= quando avviene uno scambio di geni tra popolazioni separatesi in passato), ma soprattutto perché è proprio la comprensione dei nostri filoni collaterali, delle linee estinte, della nostra grande variabilità ciò che ci consente di ricostruire il processo di ominazione. E ormai è lampante che questa ricostruzione non può assolutamente ignorare anche i tentativi falliti e i rami morti del grande cespuglio dell’evoluzione che non sono scritti nel nostro menoma”.

Com’è noto, tuttavia, il compito della ricerca scientifica non è tanto quello di dare risposte, quanto quello di porre delle domande. E da questo punto di vista non c’è dubbio che gli uomini di Flores pongono parecchi interrogativi. Com’è stato possibile che dall’Homo erectus, che aveva caratteristiche piuttosto diverse (tra l’altro era alto 180 cm. E aveva un cranio con una capacità di 800 – 1000 cc) si sia sviluppato l’Homo floresiensis? E’ il risultato dell’effetto isola (il fenomeno che nel giro di parecchie generazioni provoca le miniaturizzazione dei mammiferi che vivono in isole povere di risorse e di predatori – si pensi agli elefanti nani di Malta), mai precedentemente riscontrato nell’uomo? E come è possibile che esseri con un cervello così piccolo abbiano potuto produrre utensili come quelli del Paleolitico Medio-Superiore e cacciare grandi animali? Forse che l’intelligenza non è in funzione del numero dei neuroni ma della loro organizzazione?

In attesa che i risultati dell’esame del Dna ci dicano se gli uomini di Flores sono nostri parenti al 98% o al 99%, di fronte a un’umanità così diversa e così uguale, inevitabilmente si affacciano altre domande più filosofiche che scientifiche. Domande che tuttavia non possiamo evitare. Dove finisce e dove comincia l’uomo? Siamo pronti a riconoscere le altre specie umane? Sicuramente per noi non è facile accettare l’idea dell’esistenza di uomini “biologicamente altri”, perché siamo abituati alla nostra unicità, essendo stati forgiati da culture assolutamente antropocentriche, sia laiche che religiose. Eppure, anche se la possibilità di un incontro ravvicinato con questi uomini è svanita per sempre, sarebbe utile essere pronti, almeno concettualmente, a questa eventualità. In fondo una cosa del genere capitò ai nostri antenati che durante il Paleolitico Superiore, per almeno 10.000 anni condivisero l’Europa e il Medio Oriente col Neandertal (ed è documentato archeologicamente che l’incontro produsse una interazione culturale – la questione di un possibile, limitatissimo assorbimento dei neandertaliani da parte del sapiens sapiens, pur non chiusa definitivamente, è in genere esclusa dagli specialisti). E anche a Flores un’incontro del genere si verificò almeno altre due volte, la prima quando gli antenati degli aborigeni dell’Australia, 70.000 – 60.000 anni PP, utilizzarono quelle isole come ponte verso l’Australia e poi, 40.000 – 20.000 anni PP, quando arrivarono i nonni degli attuali indonesiani. Ma a ben vedere un trauma del genere, fatte le debite proporzioni, non capitò anche al tempo della Conquista quando l’incontro con Aztechi e Tupinambà pose in modo radicale la questione dell’umanità dell’altro? Allora la questione fu risolta da papa Paolo III che nella bolla Sublimis Deus stabilì che era demoniaco negare l’umanità degli Indiani.

Fonte: La Stampa 06/11/04
Autore: Antonio Aimi
Cronologia: Preistoria

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