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ROMA. Settis: pace in vista con il nuovo Getty. Ci accorderemo sulle opere da restituire.

«Un accordo col Getty Museum si troverà». Salvatore Settis è ottimista. Nonostante l’ intensità di uno scontro su pezzi archeologici trafugati, commerci senza scrupoli e incauti acquisti, che ha spinto il ministro Rutelli a minacciare addirittura un «embargo culturale» contro il museo americano. E nonostante una tensione che ha fatto circolare le voci più diverse, compresa quella di sue dimissioni da presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, smentita dal professore, che la definisce «un argomento non all’ ordine del giorno».
Sono le ultime notizie da Los Angeles a parlare in favore di un accordo: «Penso che questa – afferma convinto – debba essere una delle priorità del nuovo presidente del Getty Trust, nominato proprio ieri, James N. Wood, che fra l’ altro ha studiato in Italia, a Perugia. Il nuovo presidente sa che il Getty cominciò a prender coscienza del problema già nel 1995 e potrebbe mostrare nelle discussioni col nostro Ministero più apertura e flessibilità».
Fino ad oggi Salvatore Settis – direttore della Normale di Pisa e uno dei massimi esperti d’ arte italiani – di questo non aveva mai parlato. Eppure, pochi possono vantare un osservatorio privilegiato come il suo: dal 1994 al 1999 è stato Direttore del Research Institute del Getty, la struttura di ricerca che con i suoi 800.000 volumi vanta la più importante biblioteca al mondo di storia dell’ arte, vivendo fianco a fianco con il Museo e con i suoi curatori.
Gli stessi, messi oggi sotto accusa, per le incaute acquisizioni. Una in particolare, quella Marion True, sotto processo a Roma dove deve rispondere di associazione per delinquere e ricettazione di beni archeologici. Il professore è appena tornato dagli Usa, dove ha accompagnato il ministro Francesco Rutelli e dove ha ricevuto il prestigioso premio della «Foundation for Italian Art & Culture». Ed è proprio vicino a Rutelli – e condividendo le sue posizioni – che ha vissuto l’ escalation dello scontro: la richiesta di restituzione di 52 reperti archeologici e la controproposta del Getty di rimandarne indietro solo 26 e non i più importanti: la Venere di Morgantina e l’ Atleta di Fano attribuito a Lisippo.
Questa vicenda – insiste Settis – «è molto più complessa di come appare. Quello che gli italiani spesso non sanno è come è fatto il Getty Museum, come è nato, cosa c’ è dietro. Quando John Paul Getty è morto, nel 1976, aveva comprato pochi pezzi pregiati, ma ha lasciato 750 milioni di dollari al “Trust” destinato a proseguire gli acquisti. Quel fondo in pochi anni è arrivato a 9 miliardi di dollari.
Una cifra impressionante che ha sconvolto il mercato mondiale dell’ arte. Ci sono stati anni in cui le quotazioni sono letteralmente impazzite, perché ovunque c’ era una offerta il Getty arrivava e comprava».
Negli anni ‘ 80 molti acquisti di antichità sono stati gestiti dal curatore di allora, Jiri Frel, alcuni dei quali – secondo Settis – «doppiamente imprudenti. Ha comprato pezzi che si sono rivelati dei falsi e opere la cui provenienza non era garantita». È dopo questa stagione che arriva al Getty Museum la nuova curatrice Marion True.
«La sua politica degli acquisti all’ inizio non si differenzia dal predecessore – spiega Settis -, ma d’ altronde in quel momento nessun archeologo americano si faceva scrupoli ad acquistare da un tombarolo. Era considerato prevalente l’interesse del Museo.
Un ex direttore del Metropolitan, Thomas Hoving, nelle sue memorie, ne parla tranquillamente». «Quando Marion True ha comprato la Venere di Morgantina (1988) io ero là, invitato come Getty scholar – racconta Settis -, l’ho vista arrivare. Io non sono certo che provenga proprio da Morgantina, ma che venisse dall’ Italia non c’ era alcun dubbio. E la natura dell’ acquisto era più che sospetta. Lo dissi subito a Marion True, guarda che questa opera è nostra».
«Ma qualche anno dopo – aggiunge Settis -, siamo a metà degli anni Novanta, comincia ad affermarsi un nuovo modo di pensare degli archeologi americani. E si lega al crescere della protesta “difensiva” che andava maturando in Italia, in Grecia, in Turchia, i Paesi più depredati. Gli archeologi americani si sono resi sempre più conto che l’ acquisto di pezzi singoli senza conoscere la provenienza avrebbe depauperato il valore stesso di quell’ oggetto dal punto di vista scientifico. Cresceva la consapevolezza che quelle acquisizioni erano eticamente ingiuste.
Il Getty Museum è stato il primo a mettersi in questa direzione. La moralizzazione è cominciata proprio da loro. E la prima a muoversi, è giusto riconoscerlo, è stata proprio Marion True». Settis si rende conto che l’ affermazione contrasta e non poco con l’ immagine «rapace» che il Getty e i suoi curatori si sono fatti in Italia. E con una realtà processuale contro Marion True che a febbraio arriverà alla sentenza.
«Io non commento le carte processuali, posso solo raccontare quello che ho visto: dopo la nomina al Research Institute del Getty, arrivai a Los Angeles il 6 gennaio 1994. Due settimane dopo Marion True mi invitò a pranzo in un ristorante veneto di Santa Monica, “Remi”.
Qui mi confidò di avere scoperto che alcuni pezzi acquistati erano stati trafugati in Italia. Le risposi che c’ era una cosa sola da fare, restituirli. I pezzi venivano da uno scavo clandestino a Francavilla Marittima, in Calabria e oltre al Getty erano finiti al Museo dell’ università di Berna e a Copenhagen. Marion True invitò a Los Angeles i responsabili del Museo di Sibari, e fece in modo che la restituzione comprendesse anche i pezzi di Berna e Copenhagen. Il Getty si fece carico del restauro e ora quelle opere sono a Sibari. Negli anni successivi questa cosa si è ripetuta cinque o sei volte. Nel 1995 il Getty Museum fu il primo a dotarsi di una specifica “policy” per le acquisizioni che lo impegnava a non comprare nulla la cui provenienza non fosse garantita».
Ma anche questa iniziativa non doveva mettere al riparo il museo dai rischi, visto che la successiva acquisizione della collezione Fleischmann sarebbe finita, insieme agli acquisti imprudenti di Frel e della True, nell’ inchiesta aperta dalla magistratura italiana.
«A Los Angeles – racconta Settis – vidi il generale dei carabinieri Roberto Conforti, gli dissi il poco che sapevo, d’altronde io non ero mai stato coinvolto in alcun modo negli acquisti. Ma il primo museo americano a fare restituzioni è stato proprio il Getty, mentre il Metropolitan e il Boston Museum allora non ne parlavano nemmeno. Il famoso Vaso di Eufronio venne acquistato dal Metropolitan negli anni Settanta: che fosse stato trafugato a Cerveteri era certo dal primo giorno. Oggi il vaso è ancora lì, ma sotto c’ è scritto “proprietà del governo italiano” e prima o poi tornerà a casa».
Salvatore Settis non ha mai avuto a che fare col mercato dell’ arte ma sa bene che «specialmente nell’ archeologia è da sempre pieno di zone grigie». Ma è anche convinto che «sebbene sia difficile separare il lecito dall’ illecito, il confine si è spostato verso la legalità e questo è straordinariamente positivo». D’ altronde la dimostrazione di una provenienza sul piano strettamente archeologico talvolta può soddisfare gli studiosi, ma risultare fragile in modo sorprendente sul piano giuridico: «L’ unica salvezza – insiste Settis – è spostare la discussione sul piano etico-deontologico. Deve essere chiaro che l’ archeologo che contribuisce con un acquisto incauto a distruggere un contesto, a impoverire un territorio, è come un medico che consapevolmente fornisce a un paziente malato, una cura sbagliata».
È l’ opera d’ arte che deve tornare al centro di ogni interesse. Salvatore Settis fa un parallelo con la recente polemica sui prestiti che ha coinvolto il Cristo morto di Mantegna e la pinacoteca di Brera. «Condivido le prime indicazioni della commissione presieduta da Andrea Emiliani. Se un’ opera si muove non deve essere per rispondere alle esigenze di una mostra o del turismo, ma solo dell’ opera stessa e in assoluta sicurezza. Credo che il Louvre in tutta la sua storia abbia prestato la Gioconda di Leonardo una o due volte, e sempre come una icona del Louvre stesso. Io penso che sia stato sbagliato: la Gioconda io voglio andare lì a vederla. Per muoverla ci dev’ essere un motivo all’ altezza, la prima esposizione mondiale di tutte, ma proprio tutte, le opere di Leonardo da Vinci. Per qualcosa di meno, che rimanga dov’è».  


Fonte: Corriere della Sera 06/12/2006
Autore: Fallai Paolo

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