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ROMA. La storia perduta fra le stanze “buie”.

musei abband

Chiude il museo del’Alto Medioevo di Roma, mentre si salva quello dedicato alla Civiltà Romana, grazie a fondi trovati in tutta fretta.
Ormai non passa settimana che non giunga la triste notizia della chiusura di un museo, di una biblioteca, di un archivio. Decine sono i musei, piccoli e grandi, nazionali e locali, a rischio in Italia, ormai privi di risorse e di personale. È di questi giorni la triste notizia relativa ad una storica istituzione di Roma: il museo dell’Alto Medioevo. Da anni a rischio di chiusura, è l’unico dedicato a un periodo (IV-XIV secolo) fino a pochi anni fa considerato «buio». Un museo che espone una straordinaria collezione di reperti e contesti di grandissimo interesse: basti pensare ai meravigliosi rivestimenti marmorei (opus sectile) di una ricca domus di Ostia, ai corredi delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino (VI-VII secolo), ai rilievi marmorei di alcune chiese di età carolingia (IX-X secolo), o alla pre­ziosa collezione di tessuti copti (III-X secolo).
Ebbene, fin dalla sua inaugurazione nel 1967, questo spazio espositivo, come altre strutture del Ministero per i beni culturali (il preistorico etnografico L. Pigorini, il museo delle arti e tradizioni popolari, l’Archivio Centrale di Stato), è in affitto in edifici di proprietà dell’Eur SpA, società partecipata dal Ministero dell’economia per il 90% e dal comune di Roma per il 10%, al quale il Mibact versa 11 milioni annui per canoni di locazione. Un assurdo paradosso: lo Stato che paga allo Stato!
Ora la mannaia della spending review impone risparmi: e si comincia con lo spazio dedicato al Medioevo, il cui canone annuo è pari a circa il 3-4% del totale dei canoni pagati dal Mibact all’Eur. Un risparmio limitato se si considera non solo la spesa complessiva, ma anche i costi necessari per il trasferimento e il nuovo allestimento: basti pensare che il solo allestimento dell’aula dell’opus sectile nel 2006 ha comportato il costo di circa un milione di euro. Risparmiare è doveroso, ma ancora una volta si rischia di procedere senza un criterio e senza un progetto culturale. Perché non si affronta definitivamente l’assurdo problema delle locazioni passive alle quali il Mibact destina ormai gran parte delle sue scarse risorse? Perché non chiedere al ministero dell’economia il trasferimento di questi immobili dell’Eur al Mibact? E perché affrontare il problema solo in maniera burocratica e ragionieristica e non nell’ambito di un progetto complessivo di riorganizzazione museale che, ad esempio, preveda, in tempi ragionevoli e con fondi adeguati, una fusione tra il museo dell’Alto Medioevo e la Crypta Balbi?
I problemi per i musei di Roma non sono finiti. Solo pochi giorni fa avevamo appreso con preoccupazione la notizia della chiu­sura del museo della Civiltà Romana, a causa di gravi problemi relativi al mancato rispetto delle norme sull’igiene, la prevenzione degli incendi e le barriere architettoniche. Un sospiro di sollievo ha, fortunatamente, accolto poi il comunicato del Campidoglio relativo al reperimento delle risorse necessarie per i lavori di sistemazione e adeguamento dello storico museo romano. Bisogna dare atto al sindaco Ignazio Marino e all’assessore alla cultura Flavia Barca di essersi attivati immediatamente, di aver sbloccato i fondi necessari e di aver avviato le procedure per appaltare i lavori, che riguarderanno anche il famoso plastico di Roma imperiale e le sale storiche, il Planetario e il museo: l’intero edificio sarà dunque chiuso per il periodo necessario al completamento delle opere programmate.
È una chiusura provvisoria che scongiura il timore di quella definitiva di uno dei luoghi più originali di Roma. Erede della Mostra Archeologica del 1911, del museo dell’Impero Romano e della Mostra Augustea della Romanità, il «palazzo» della Civiltà Romana, aperto al pubblico nel 1955, espone soprat­tutto riproduzioni di statue, iscrizioni, parti di edifici, e plastici, tra cui quello straordinario della Roma costantiniana realizzato dall’architetto Italo Gismondi. Liberate dalla retorica propagandistica originaria, le sale del museo consentono di conoscere aspetti della vita di età romana, le arti, le scienze, i commerci, l’esercito, la scuola, la vita domestica, l’alimentazione.
C’è da sperare, quindi, non solo che la chiusura di un museo sia scongiurata e che la riapertura dell’altro avvenga in tempi rapidi, ma anche che si colga l’occasione per rendere entrambe le istituzioni più efficaci dal punto di vista didattico, magari dotandole di innovativi sussidi multimediali e rendendole ancor di più luoghi di crescita culturale, di piacere, divertimento ed emozioni. Spesso, infatti, visitando un museo il pubblico si aggira in sale concepite in maniera elitaria, avvertendo una sensazione di inadeguatezza, perché non comprende compiutamente il messaggio degli oggetti esposti. E quando si utilizzano le tecnologie, queste sono intese come strumenti di spettacolarizzazione, invece di essere al servizio di un progetto culturale.
Ma soprattutto c’è da sperare che si eviti di depauperare il patrimonio museale romano e italiano. Bisognerà capire un giorno che quasi nessun museo al mondo è in grado di autosostenersi e che sono necessari investimenti pubblici adeguati in questo settore. Quando si supererà la logica delle graduatorie d’importanza dei musei solo sulla base del numero di biglietti? O si comprenderà che le ricadute che un museo, un archivio o una biblioteca possono avere sono diverse e ben più «remunerative» rispetto a una malintesa e alquanto rozza visione mercantilistica del bene culturale? E quando sapremo valutare ed anche quantificare i vantaggi di un museo in termini di crescita culturale, di miglioramento del benessere e della qualità della vita?

Autore: Giuliano Volpe, giuliano.volpe@unifg.it

Fonte: Il Manifesto, 6.2.2014

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