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NEW YORK: La curatrice del Getty in tribunale. Il malloppo? Lo compra il museo.

Nobili dimore della cultura, o raffinati centri di ricettazione? Un simile sospetto non avrebbe mai dovuto gravare sulla testa dei grandi musei internazionali. Eppure le ultime notizie venute dagli Stati Uniti fanno pensare che la signora Claudine Lytton, quando faceva impazzire l’ispettor Clouseau trafugando il diamante Pantera Rosa dalla galleria nazionale di Lugash, era più astuta di Robin Hood: lui rubava ai ricchi per dare ai poveri, mentre lei rubava ai ladri per dare ai ladri. Tutto nasce dall’imbarazzante caso del Getty Museum, ma non finisce qua.

Marion True, ex curatrice delle antichità per la ricca istituzione di Los Angeles, verrà processata il 16 novembre a Roma insieme ai presunti trafficanti Giacomo Medici e Robert Hecht. Gli avvocati del Getty, secondo un’inchiesta del Los Angeles Times, si sono accorti che il museo ha acquistato 82 pezzi da galleristi sotto inchiesta in Italia. Fra le opere d’arte in discussione ci sono 54 dei 104 reperti archeologici che l’istituzione aveva identificato come capolavori, inclusa una splendida statua in marmo del dio Apollo. True e gli altri imputati si sono dichiarati innocenti, mentre il Getty ha messo le mani avanti, giurando che non ha mai comprato arte rubata sapendo di farlo. Eppure il museo intitolato al magnate del petrolio, come atto di buona volontà, ha appena riconsegnato all’Italia tre pezzi archeologici rubati, fra cui una preziosa urna del famoso pittore di Paestum Asteas.

Sarebbe bello credere che sia stata solo una svista del Getty, nella foga di acquistare opere per soddisfare l’ossessione del suo fondatore per Roma imperiale. Ma pochi giorni fa Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York che si autodefinisce “un cattivo ragazzo riformato”, ha ammesso con candore: “Non me ne importava nulla della provenienza delle opere. Io compravo e basta, almeno fino al 1971”.

Patty Gerstenblith, archeologa e professoressa di legge alla DePaul University di Chicago, ha spiegato così il fenomeno al giornale Usa Today: “Curatori e direttori pensano che la loro missione primaria sia acquistare arte: costruiscono le proprie reputazioni su questo. I musei comprano oggetti non documentati? Certo, se pensano di poterla fare franca”.

Il vizietto della ricettazione va diviso in tre categorie: i pezzi archeologici, l’arte antica, e quella moderna e contemporanea. L’ultima è quella meno soggetta, perché gli autori sono troppo noti e catalogati per imbrogliare, e la legge è più permissiva sulle opere che hanno meno di 50 anni. Lo stesso discorso della notorietà riguarda anche l’arte antica, ma un po’ meno. Un caso famoso, ad esempio, è quello del Compianto sul Cristo di Anton Van Dick. Era scomparso da Palermo nel 1947 ed era riemerso nel 1998, come “importazione temporanea” dall’estero per farlo restaurare. L’obiettivo di chi lo aveva trafugato era creargli una nuova verginità, nella speranza che nessuno si accorgesse del trucco. Se il ministero dei Beni Culturali avesse dato il nulla osta alla riesportazione, il capolavoro sarebbe stato rivenduto legalmente ad un museo straniero. Il restauratore però ha intuito il giochetto, lo ha denunciato, e l’opera è stata salvata. Imbrogli del genere sono molto più frequenti con i pezzi archeologici, perché parecchi sono sconosciuti o vengono scavati illegalmente ancora oggi.

Maria Grazia Bernardini, sovrintendente reggente di Modena e Reggio Emilia che aveva curato proprio la mostra del Van Dick recuperato a Milano, spiega: “Ogni opera raccolta dal sottosuolo appartiene al demanio e non può essere venduta all’estero senza un permesso speciale, che non viene dato quasi mai. Però i criminali fanno documenti falsi, o non li presentano proprio, e vendono ad acquirenti senza scrupoli”. Il traffico era quasi la norma in paesi come l’Italia e la Grecia, con casi eclatanti come la Stele di Rosetta finita dall’Egitto a Londra, o gli Elgin Marbles, tolti al Partenone dall’ambasciatore inglese e venduti al British Museum. Scandali non solo per il furto, ma anche perché hanno sottratto le opere alle culture dove erano state concepite, esponendole in spazi senza senso.

Nel 1970 l’Unesco ha approvato una convenzione per prevenire questi traffici e nel 1991 è nato l’Art Loss Register, che denuncia tutte le opere perdute o rubate impedendo la rivendita. «Il fenomeno – spiega la Bernardini – ha rallentato negli ultimi anni, perché i musei hanno moltiplicato i contatti fra di loro e i governi sono diventati più aggressivi nel perseguire i furti d’arte e pretendere la restituzione. L’accordo tacito, però, è che le opere trafugate da oltre mezzo secolo restano dove stanno». Fino a quando un Vincenzo Peruggia, ladro della Gioconda, tornerà a rubarle per patriottismo.

Fonte: La Stampa 22/10/05
Autore: Paolo Mastrolilli

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