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La Mostra di Salgado. Quel che ci resta della Terra ai tempi della Genesi.

Genesi e’ un tributo visivo a un pianeta fragile che tutti abbiamo il dovere di proteggere»: cosi’ Lelia Wanick Salgado spiega la mostra che ha curato e che raccoglie all’Ara Pacis 250 immagini in bianco e nero del marito Sebastiao Salgado. Lui ci ha abituati a imprese «titaniche», a reportage di lunghi anni per denunciare con le sue immagini le condizioni di vita degli ultimi della terra, fossero minatori o migranti o coltivatori di caffe’.
Questa volta per quasi un decennio ha puntato i suoi occhi e il suo obiettivo sul nostro pianeta, alla ricerca di «un paradiso», ossia di cio’ che rimane (e per fortuna e’ molto, contrariamente a cio’ che si crede) del mondo delle origini: foreste, montagne, isole, ghiacciai, vulcani, animali e anche tribu’ umane lontane dalla civilizzazione. «Perche’ – spiega Salgado -, questo nostro pianeta abbiamo il dovere di proteggerlo, di salvarlo e anche di ricostruire cio’ che abbiamo distrutto». E forse a sintetizzare la condizione odierna dell’umanita’ basterebbe quell’immagine bellissima di madre e figlio, avvolti in un mantello e accoccolati a guardare, all’alba, sotto un cielo che sembra davvero quello della genesi, un’ imponente valle dell’Etiopia. Vediamo solo i loro occhi smarriti, che sembrano pero’ interpretare anche il nostro smarrimento.La mostra e’ scandita in sezioni, che coprono tutti i continenti, si va dal Pianeta Sud (l’Antartico e la Patagonia), alle Terre del Nord (il Canada, l’Alaska, la Kamchatka), dal Pantanal (Amazzonia e Mato Grosso) all’Africa, passando per i Santuari (Madagascar, Papua, Indonesia). Sono immagini dove la maestosita’ della natura (Salgado non teme di cimentarsi con Ansel Adams & C. e ci restituisce immagini del Gran Canyon, dello Utah o del Colorado che nulla hanno da invidiare, con i loro cieli nuvolosi, a quelle dei maestri del paesaggismo made in Usa) si accompagna all’attenzione per le forme talora inconsuete che questa assume, si tratti di un baobab che spunta da un’isola del Madagascar o della zampa di un’iguana. E l’attenzione per la forma diventa talora pura astrazione, come nel caso di una duna del deserto algerino o di una mandria di renne che costruiscono ghirigori geometrici sulla neve. E in molti casi ti spiazza come quando da lontano pensi «cosa c’entra il notturno di una citta’ illuminata?» e avvicinandoti alla fotografia scopri che quelle luci non sono di case ma sono gli occhi luccicanti nella notte di una moltitudine di caimani da qualche parte nell’Amazzonia. E a sbalordire sono proprio le immagini degli animali ripresi nel loro habitat. Per realizzare certi scatti e’ salito su una mongolfiera «perche’ – afferma – e’ silenziosa e non li spaventa».
Cosi’ puoi vedere ippopotami che risalgono fiumi e karibu’ nella savana, antilopi vicino a un lago e tigri che si abbeverano. Non mancano gorilla delle montagne, leopardi, leoni e anche (per la gioia dei piddini) giovani giaguari. Cosi’ come non puoi dimenticare le processioni di pinguini in Antartide o le pinne delle balene che si inabissano al largo della Penisola Valdes in Argentina.Ma a colpirti, sia perche’ non pensavi che nel terzo millennio esistessero ancora certe condizioni di vita, sia soprattutto per la bellezza, la fierezza e la dignita’ che Salgado riesce a restituire ai loro volti e ai loro corpi, sono gli indigeni di tribu’ che vivono in Nuova Guinea, come nel Mato Grosso, in Alaska come in Africa.
Abbiamo una serie di ritratti che da soli sono una mostra nella mostra: le due donne delle tribu’ mursi e surma che ancora portano dischi labiali, il ragazzo del Mato Grosso, con la pelle dai disegni rituali che ha appena pescato due pesci (l’indole pacifista di questa tribu’ dicono venga proprio dalla dieta ittica). O la ragazza, sempre in Amazzonia, seduta su una sedia, sola al centro della capanna di famiglia (sembra un’immagine di uno spettacolo di danza alla Pina Bausch) proprio nel giorno che precede il suo ritorno alla comunita’: nella sua tribu’ le ragazze dopo la prima mestruazione vengono isolate per un anno intero e alla fine di questo periodo c’e’ una cerimonia con danze e combattimenti, perche’ si sappia che ora puo’ prendere marito. E che dire del cacciatore dello Botswana con in mano un’otarda e una sorta di canna che spunta dalla sacca sulla schiena? Nell’insieme anche l’uomo sembra mimetizzarsi nella natura quasi fosse un uccello. Non puoi non pensare che sia un piccolo principe il bambino di una tribu’ di eschimesi, con il suo mantello fatto in parte di pelle di renna e in parte di pelliccia di volpe. Diventano realta’ concrete anche le figure degli sciamani da mille antropologi studiate: ce n’e’ uno, testa rasata e braccia tatuate, che sembra sospeso nel nulla, quasi su un fondale alla Velazquez: intreccia foglie per fare un setaccio, in Indonesia. E altri sciamani, a Papua, hanno invece il volto e i capelli talmente coperti di terra e di colore che assumono la sembianza di vere e proprie sculture. E a proposito di sculture ma anche di culture c’e’ stato ieri, durante l’allestimento della mostra all’Ara Pacis, una sorta di corto circuito spazio-temporale: sotto gli occhi dei bianchi busti marmorei degli imperatori romani, da Augusto a Tiberio, e’ stato disteso un grande telero con il ritratto di un gruppo di sciamani Kamayura del Mato Grosso. Al centro, un uomo con un cappello di pelle di giaguaro che e’ il sacerdote piu’ importante di tutta la regione dello Xinga. Il suo nome e’ Takuma Kamayura. E il suo dialogo con Augusto era talmente interessante che lo stesso Salgado non ha potuto fare meno di fotografarlo.

Autore:  Rocco Moliterni

Fonte: La Stampa.it, 14 mag 2013

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