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Giuliano CONFALONIERI. “Andrea Doria”, storia dell’affondamento.

Il relitto dell’Andrea Doria – mai ricuperato – è coricato sul fianco di dritta su un fondale di 75 metri davanti alle coste statunitensi.
1956, la tragedia è in agguato. Il fondo del mare è coperto di relitti, navi affondate per cause diverse, dai conflitti agli uragani, agli errori umani. Un caso particolare è quello della nave passeggeri italiana Andrea Doria antesignana – insieme a Rex, Michelangelo, Raffaello — del moderno nutrito traffico delle navi da crociera, grattacieli galleggianti che stanno conquistando ampie fette del mercato turistico.
Una vita durata appena tre anni – dal 1953 al 1956 — segnata da un destino implacabile, da un appuntamento che avrebbe potuto essere disdetto tra due imponenti e lussuose imbarcazioni. A bordo non ci sono freni d’emergenza come sui treni e neppure ganasce a disco come sulle automobili: i natanti sono in balia delle onde, della deriva, della forza inerziale che li rende vulnerabili al cento per cento, soprattutto quando i comandi della timoneria non rispondono o i motori sono in avaria. La forza del mare, gli errori di rotta o di comando, sono fattori determinanti per la loro sicurezza: i gusci di noce come le caravelle di Colombo sono ormai superate dalla strumentazione tecnica, dagli automatismi, dalla possibilità di lanciare S.O.S. a ripetizione con l’obbligo di intervento dei natanti più vicini, dall’avvento degli elicotteri, dalla costante vigilanza delle guardie costiere, un insieme di aiuti che rendono — o dovrebbero rendere — la navigazione più sicura.
L’imponderabile è comunque dietro l’angolo e la fatalità incombe sempre sugli uomini imbarcati: la Costa Concordia ne è l’esempio più recente, al di là delle eventuali responsabilità (generalmente i comandanti preferiscono rispettare gli orari programmati piuttosto che stizzire i passeggeri e lo stesso armatore per le spese maggiorate del carburante; in caso di pericolo l’equipaggio ha l’ordine di minimizzare o addirittura negare l’emergenza).
L’appuntamento con la Doria era fissato con la svedese Stockholm il cui nome trascinava storie di altre disgrazie: la prima — varata nel 1904 — aveva navigato senza problemi fino agli anni Trenta, la seconda varata nel 1938 venne distrutta in cantiere da un incendio, la terza era scesa in mare nel 1940 ma fu affondata dalle bombe alleate. La nuova Stockholm (coinvolta nell’impatto con la Doria) varata nel 1948 fu la prima nave ad attraversare l’Oceano Atlantico dopo la fine della II guerra mondiale: oltre 12.000 ton., sette ponti, una piscina coperta e cabine per quasi 400 ospiti.
La tendenza dell’epoca era quella di costruire navi da crociera relativamente piccole nella convinzione che il traffico aereo avrebbe surclassato quello marino (nessuno avrebbe immaginato la diffusione dei mastodonti recenti che possono portare fino a 5.000 persone in ogni parte del mondo). Lunga 159 mt. (29.000 ton.) era nata per dare ai passeggeri un viaggio confortevole tanto da riservare una cabina esterna anche ai membri dell’equipaggio. L’ordine alla partenza da New York era stato avanti a tutta forza e doveva essere mantenuto fino alla diga foranea di Copenaghen. Malgrado la presenza a bordo della strumentazione moderna e della nave-faro ancora lontana, era predominante la navigazione stimata con possibilità di correzione di eventuali mutamenti di rotta dovuti alla naturale deriva.
Quando fu possibile determinare la posizione con il radiogoniometro, si resero conto che la Stockholm era fuori rotta di quasi tre miglia per colpa delle correnti, corretta da un timoniere che si distraeva facilmente anche se era convinto di avere sempre la situazione sotto controllo. Quando il radar segnalò l’eco distante una dozzina di miglia la nave era in uno stato ideale: mare calmo e strumenti controllati prima della partenza; il buio della notte era forato dai raggi ripetuti sullo schermo mentre le luci di posizione dell’altra imbarcazione continuavano a spostarsi gradualmente. Il programma di viaggio della Doria prevedeva di sbarcare oltre mille passeggeri a New York il mattino successivo e ogni ritardo avrebbe causato costi e disguidi. Il transatlantico aveva lasciato alle spalle la nave-faro e continuava la corsa verso il puntino segnalato dal radar senza comprendere che le due navi stavano percorrendo la medesima rotta ma in senso opposto. I dati dell’inchiesta rilevano che la velocità combinata era di 40 nodi con un avvicinamento di due miglia ogni tre minuti: pur essendo ancora in alto mare, il pericolo di collisione incombeva. Intanto la sirena antinebbia lanciava un lungo fischio ogni 100 secondi senza peraltro ottenere alcuna risposta.  
Si accorsero troppo tardi che la distanza di sicurezza tra le due navi diminuiva velocemente e perciò l’impatto diventò inevitabile.
La prua della Stockholm aveva un doppio strato di lamiere spesse 25 mm. intervallato dall’intercapedine di 60 cm., quasi come le rompighiaccio destinate alle rotte artiche.
Squarciò il fianco della Doria e così iniziò il calvario del si salvi chi può. Mentre le due navi abbandonavano l’abbraccio mortale, gli ufficiali provvedevano a constatare i danni, mettere in moto le pompe di sentina e trasmettere il messaggio Morse: “Siamo entrati in collisione con un’altra nave, prego segnalare nominativo”, quasi in contemporanea al segnale di S.O.S. della Doria. Sette ponti su undici del transatlantico italiano, compresi i serbatoi del carburante, furono compromessi dall’urto lasciando esterrefatto il personale che vide scomparire la sagoma della bianca nave svedese dietro la poppa.
Accecati dal buio della notte e dalla nebbia persistente, riuscirono a vedere solamente un gigantesco buco nero dal quale uscivano suppellettili di ogni tipo ed entravano flutti d’acqua salina che contribuivano ad accentuare l’inclinazione dei 212 metri di lunghezza suddivisi in undici settori resi stagni dalle paratie automatiche. Teoricamente ‘inaffondabile’ come il Titanic – inghiottito dal mare  nel 1912 per l’urto con un mastodontico iceberg – il transatlantico era già inclinato di oltre 20°, dopo appena cinque minuti dalla collisione, un dato molto preoccupante per l’intero equipaggio e anche per i passeggeri meno consapevoli. Il doppio fondo che serviva anche per lo stivaggio di merci e combustibile divenne preda di tonnellate d’acqua che appesantirono la situazione, già al limite del collasso. Malgrado le pompe aspirassero a pieno ritmo, non riuscivano a compensare il flusso salino in entrata; il comandante ordinò di ammainare le lance di salvataggio, consapevole del pericolo di capovolgimento ma non fece suonare il segnale di abbandono nave per non creare un panico travolgente, pensò invece di portare la nave su un basso fondale in modo da appoggiare la carena e salvare il salvabile.
La richiesta d’aiuto del transatlantico alla deriva, segnalato dal fischio antinebbia e dai fanali di posizione, fu recepita dalla Guardia costiera di New York che allarmò i soccorsi disponibili nella zona, ai quali rispose in primis l’Ile de France sulla rotta del ritorno; il suo capitano – dopo avere avuto conferma dal messaggio Abbiamo bisogno di assistenza immediata – decise di rispondere Comandante Andrea Doria intendo assisterla perché comprese che 1500 persone (300 dell’equipaggio) erano in serio pericolo.
Intanto la Doria derivava verso la Stockholm che nell’impatto aveva srotolato le catene ancorandosi sul fondo: la prua incassata imbarcava acqua a tonnellate fino alla prima paratia mentre il lato di dritta della nave italiana cominciava ad inclinarsi: il personale si affannava intorno alle lance di salvataggio non coinvolte nel sinistro ma il pericolo derivava dallo sbandamento dello scafo in aumento.
Due navi in avvicinamento richiesero l’accensione dei razzi di segnalazione per individuare meglio il transatlantico avvolto dalle tenebre. In un rapporto scritto precariamente a matita si può leggere: “Ora della collisione 23,09. La visibilità era buona a dritta ma un banco di nebbia impedì di vedere la Doria fino a distanza 1,8-1,9”.
A bordo regnava il panico che faceva reagire le persone in base all’emotività di ognuno: alcuni  buttarono i bambini dal ponte, fortunatamente raccolti in una vela d’emergenza distesa dai marinai, altri si procurarono fratture e ferite tra grida laceranti ed una incredibile confusione fino alla miracolosa visione dell’Ile de France la lussuosa nave passeggeri di 45.000 tonnellate. Dalle carrucole delle navi arrivate in soccorso furono calate numerose lance che, presto riempite, tornarono a bordo; incombeva  il pericolo che la nave italiana si capovolgesse con il carico residuo poiché l’inclinazione dello scafo aveva raggiunto i 50°.
La bianca Stockholm aveva caricato quasi 500 persone, altre erano a bordo delle navi soccorritrici, molti feriti furono curati da passeggeri che si erano qualificati come medici e infermieri diplomati. Partì un messaggio per il transatlantico francese: Nostra prua danneggiata e stiva n° 1 allagata. Per il resto nave stagna. Tenteremo ritorno a New York a bassa velocità malgrado fosse palese che le ancore erano ancora incagliate sul fondo.
Una nave statunitense arrivata per assistere i naufraghi riferì: Nessuna comunicazione con l’Andrea Doria. Sbandamento a dritta, grossa falla sotto l’aletta del ponte di comando. Non idonea alla navigazione. Tutti attendevano l’arrivo della Guardia costiera e degli elicotteri che avrebbero trasportato rapidamente i feriti gravi: infatti il primo mezzo che raggiunse le scialuppe trasmise: Raccolto 45 uomini dell’equipaggio dalle lance, compreso comandante. Vi terremo informati su eventuale rimorchio della nave.
Un tentativo impossibile perché nel frattempo il transatlantico si stava inabissando, prima con la prua poi con la poppa, dopo undici ore dalla collisione: la fredda statistica riferisce che delle 1706 persone a bordo della Doria ne furono salvate 1662, la tomba liquida è segnalata da una boa gialla.

Autore: giuliano.confalonieri@alice.it  

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