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EGITTO. Tra Italia e Egitto un antico legame: i ricordi di Silvio Curto.

”A Alessandria d’Egitto gran parte della citta’ moderna e’ stata costruita dagli architetti italiani, all’inizio del ‘900. In certe strade sembra di essere a Torino. Al Cairo e’ interamente italiano il quartiere di Zamaleq. Ma anche in diverse cittadine dell’interno ci sono case signorili in perfetto stile liberty nostrano». Del profondo legame tra Egitto e Italia, Silvio Curto e’ un testimone privilegiato, nella duplice veste di sovrintendente-direttore per un ventennio, dal 1964 al 1984, del Museo Egizio di Torino, e di (invidiabile) ultranonagenario che alla civilta’ dei faraoni ha dedicato l’esistenza. Un legame che risale al tempo dei Romani, quando dopo la battaglia di Azio, nel 31 a.C., l’Egitto acquista il rango di prefettura per diventare il granaio dell’Urbe, e rinsaldato tra Otto e Novecento: con Bernardino Drovetti, piemontese di Barbania, console di Francia, dalla cui collezione e’ nato l’Egizio torinese, secondo al mondo dopo quello del Cairo; con il padovano Giovanni Battista Belzoni, che lavorava per il console inglese, esaltato Oltremanica come il fondatore dell’archeologia scientifica; con il biellese Ernesto Schiaparelli, storico direttore dell’Egizio, che arricchi’ con i suoi scavi; con Giuseppe Botti, egittologo originario del Verbano, fondatore del Museo Greco-Romano di Alessandria.
Ma non sono solo architetti e archeologi gli italiani presenti nella vita dell’Egitto moderno. E’ stato un tipografo livornese, Pietro Michele Meratti, a fondare nel 1828 il primo servizio postale del paese. E Alessandria e’ stata all’inizio del ‘900 un centro commerciale e intellettuale capace di attrarre una popolazione composita, dove accanto a un Kavafis nascevano anche i nostri Ungaretti e Marinetti.
«Ai tempi di re Fuad I e poi di Faruq I, circa un secolo fa», spiega Curto, «inglesi e francesi fornivano la classe dirigente, ma grandi spazi si erano aperti per i nostri tecnici e professionisti – oltre agli architetti, medici, banchieri e avvocati, molto richiesti per la necessita’ di sviluppare una giurisprudenza mista, che tenesse conto del Corano e del diritto occidentale, soprattutto in ambito matrimoniale. Un cugino di mia madre, avvocato, fece un sacco di soldi».
La prima volta in Egitto, per Curto, fu nel 1948, a 29 anni: «Al Cairo alloggiavo in una pensione gestita da un italiano, dove venivano diversi connazionali. Gli egiziani ci vedevano molto di buon occhio: non eravamo ne’ francesi ne’ inglesi, li trattavamo da pari a pari. Molti di noi cercavano di imparare l’arabo, e loro capivano l’italiano».
Negli anni successivi Curto e’ diventato di casa lungo il Nilo. Svariati gli incontri, le occasioni di lavoro, le esperienze. Ma una soprattutto e’ quella che l’ha segnato: a meta’ degli Anni 60, nell’ambito di un vasto programma internazionale, l’operazione di salvataggio dei monumenti che stavano per essere sommersi in seguito alla costruzione della diga di Assuan.
«Si trattava di smontare pezzo su pezzo per rimontare piu’ in la’. A Abu Simbel il compito era piu’ complicato, perche’ avevamo a che fare con costruzioni rupestri, che andavano recuperate tagliando la roccia, come nel caso del tempietto di Ellesija che venne donato al nostro Museo Egizio, nel ’66, in segno di riconoscenza. Lavoravamo con l’acqua gia’ alta, in condizioni disperate. Noi fornivamo la consulenza scientifica, gli egiziani mettevano i tecnici e gli operai, tutti valentissimi».
In quel periodo Curto faceva su e giu’ lungo Nilo, tra Assuan e Abu Simbel, per recensire i monumenti messi a rischio dall’imminente lago Nasser. E fu in quell’occasione che l’antico legame tra Italia e Egitto torno’ emblematicamente sotto gli occhi: «Un’epigrafe di cui si sentiva parlare da tempo: risaliva al 111 d.C. e riportava, in greco, un decreto del governatore romano per la spartizione territoriale tra due villaggi. Il diritto romano 40 chilometri a Sud di Assuan: faceva effetto». La piccola imbarcazione su cui si spostavano si chiamava «al-Hurreja», la liberta’.
«Il timoniere era entusiasta dei miei toscani, un piccolo piacere che mi concedevo la sera, assieme a un bicchiere di whisky, sotto stelle grandi cosi’, mentre il Nilo sciaguattava e dai villaggi della Nubia venivano dei canti. Era una popolazione molto allegra. Viveva in casette pulite, ordinate. Che peccato: e’ stata annientata dalla diga. Ricordo le scuole, quaderni e libri gettati a terra nella rabbia di doversene andare. Alcuni avevano sprangato la casa, nell’illusione di poter tornare, uno aveva scritto, su una parete, una specie di poesia in cui dava l’addio al suo gebel, la montagna. Per le strade vagavano cani abbandonati, affamati, scrutati dall’alto da avvoltoi famelici» .
Accanto alla malinconia, un ricordo divertente: «Mentre navigavamo verso Sud, dalla riva ci fecero segno di accostare: un capo villaggio aveva bisogno di una pomata per le scottature. Io frugai tra le mie cose – a bordo era un po’ buio – e trovai un tubetto. Il giorno dopo, ripassando di li’, ci fecero di nuovo attraccare: il capo villaggio era guarito, ci festeggiarono riempiendoci di regali, frutta, meloni eccezionali. Solo quando fui ritornato sulla barca, ricontrollando nella mia borsa, mi resi conto che avevo dato un dentifricio».  

Autore: Maurizio Assalto

Fonte: La Stampa.it, 01 febbraio 2011

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