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CORTONA (Ar). Il “LAMPADARIO DI CORTONA”. Storia di uno dei pochi reperti simbolici rimasti in Etruria.

cortona

Tra gli oggetti più famosi e noti della cultura degli Etruschi un posto da protagonista spetta al lampadario conservato oggi al Museo MAEC di Cortona. Sessanta chili di bronzo per questo che è l’unico esemplare di un lampadario etrusco ritrovato integro fino ad oggi, uno dei più pregevoli esempi di bronzistica etrusca, entrato nelle collezioni museali a seguito di un ritrovamento fortuito e di una complessa trattativa di acquisto.
Venne rinvenuto nel 1840 in un terreno di proprietà Tommasi alla Fratta di Cortona, da contadini intenti a lavori di aratura. Nel 1842, a seguito di insistenze pressanti, la proprietaria del terreno Luisa Bartolozzi Tommasi acconsentì a depositarlo temporaneamente nel già esistente museo dell’Accademia Etrusca, pur mantenendone il diritto di possesso. E così fu fino al 1846 quando decise di venderlo per duemila scudi fiorentini, una cifra esorbitante e di gran lunga al di sopra delle possibilità dell’Accademia. Tuttavia, nella strenua volontà di mantenere a Cortona questo capolavoro, ogni strada fu tentata finché, scesa la richiesta a milleseicento scudi, gli Accademici aprirono una sottoscrizione interna, dettero fondo alle pur scarse risorse finanziarie dell’istituzione, ottennero un mutuo dal Monte dei Paschi di Siena (con la garanzia del Comune di Cortona che si impegnava ad anticipare gli interessi) e con approvazione dell’autorità granducale riuscirono ad acquistare il lampadario. Grazie a questo concorso di forze è stato possibile far rimanere a Cortona il lampadario, un unicum dell’arte etrusca che da subito è diventato uno dei simboli del museo.
Si tratta di una lampada ad olio realizzata in bronzo con fusione a cera persa e datata alla metà del IV sec. a.C.; il liquido infiammabile veniva versato nella vasca concava centrale che si collega a ciascuno dei sedici beccucci esterni alla circonferenza, secondo il principio dei vasi comunicanti. Ogni beccuccio era fornito di uno stoppino che, incendiato, produceva la fiamma alimentata dall’olio. Possiamo immaginare lo splendore di questo lampadario che, una volta acceso, aveva sedici fiamme che si riflettevano e rifrangevano sulla superficie lucente del metallo. uno spettacolo magnifico e anche un po’ inquietante, forse, data la natura della decorazione presente.
L’iconografia è infatti molto complessa ed articolata. Si struttura su tre registri concentrici che si dipanano dal medaglione centrale; qui è raffigurato il cosiddetto gorgoneion cioè il volto della Gorgone o Medusa con la sua maschera mostruosa, gli occhi ferini, la bocca spalancata dalle lunghe zanne e la lingua di fuori, e con i serpenti al posto dei capelli: una figura apotropaica molto comune nel mondo e nel mito classico, che ha la funzione di allontanare gli spiriti maligni. Intorno al gorgoneion si sviluppa la prima fascia decorativa con quattro gruppi di tre animali che cacciano (si riconoscono leoni, pantere e grifi tra i predatori e cinghiali e cerbiatti tra le prede). Seguono delle onde cavalcate da delfini e infine sulla terza fascia, subito sotto i beccucci e quasi a sostenerli, sono rappresentate delle figure di sileni e di sirene; i sileni suonano il doppio flauto o la siringa mentre le sirene, con grandi ali di uccello rapace, hanno le braccia piegate sul petto.
I sedici beccucci, come il fusto, presentano all’esterno una decorazione vegetale; tra un beccuccio e l’altro è ripetuta la testa barbata e cornuta del dio Acheloo, divinità dei fiumi e delle acque dolci appartenente al mondo classico. Data l’assenza di confronti, questa complessa decorazione è di difficile interpretazione: sono state avanzate varie ipotesi ma plausibilmente si tratta del racconto di un mito o di una serie di miti intrecciati fra loro a noi oggi purtroppo sconosciuti, forse riconducibili al mondo delle acque e della divinazione etrusca (anche considerando che il sedici per gli Etruschi è un numero sacro).
Torniamo un attimo al ritrovamento: un rinvenimento fortuito in aperta campagna, a scarsa profondità e del tutto fuori contesto; lo scavo che venne immediatamente avviato sul luogo del ritrovamento non produsse alcun risultato e ciò convinse gli archeologi che molto probabilmente quell’oggetto era stato depredato da un luogo non distante e forse seppellito velocemente per poi essere ripreso a tempo opportuno… chissà; sta di fatto che ciò ha reso difficile individuarne sia la zona di produzione che la provenienza. Oggi gli esperti sono concordi nel considerare il lampadario prodotto in un’officina dell’Etruria interna centro-settentrionale, tra Arezzo ed Orvieto, la zona dalla quale arrivano altri grandi bronzi etruschi, come la Chimera, il Marte, l’Arringatore e nel IV sec. a.C. ben attrezzata a produzioni di questo tipo. Al momento del ritrovamento, ad un beccuccio del lampadario era attaccata una iscrizione in etrusco: una dedica fatta dalla famiglia dei Musni al dio Tinia. Dall’analisi delle caratteristiche della scrittura la datazione per questa iscrizione è al III-II sec. a.C. e quindi non coincide con quella del lampadario; ciò fa supporre che si tratti di una nuova dedicazione di questo oggetto come ex-voto al dio più importante del pantheon etrusco.
Quale tipo di ambiente poteva ospitare un oggetto di questo tipo? Una dimora? Un tempio? Una tomba? La complessità della iconografia, la straordinaria qualità della tecnica fusoria utilizzata, il pregio del materiale portano ad escludere la destinazione privata di un oggetto di tale valore. L’ipotesi oggi più accreditata è che il lampadario fosse più probabilmente destinato ad un tempio o ad un santuario pubblico che non ad una sepoltura; ce lo immaginiamo appeso al soffitto di un grande santuario rurale, un luogo che doveva rivestire una notevole importanza sul territorio, probabilmente di grande frequentazione o comunque posto su una direttrice principale di comunicazione, che si potrebbe anche immaginare collegato a qualcuno degli edifici sacri recentemente individuati nei pressi di Camucia, nelle immediate vicinanze di Cortona.

Autore: Eleonora Sandrelli, Storica ed esperta di Gestione e Promozione dei Beni Culturali.

Fonte: facebook.com, Gruppo Italiano amici degli Etruschi rasenna etruscans, Fabio Rossi

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