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POMPEI (Na). Pompei – 79 d.C. l’ultimo giorno.

L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
L’eruzione del 79 d.C., comunemente detta di Pompei dal nome della più famosa città dell’impero romano distrutta dai suoi prodotti, è la prima eruzione al mondo della quale si abbia una descrizione scritta. Plinio il Giovane vide l’eruzione da Miseno, distante quasi trenta chilometri dal vulcano, e la raccontò in due lettere scritte a Tacito per narrare le circostanze della morte dello zio, Plinio il Vecchio, colpito dall’eruzione sulla spiaggia di Stabia e la propria drammatica esperienza.
Benchè la natura vulcanica del Vesuvio fosse nota ai naturalisti romani, non avvenivano eruzioni da così lungo tempo che molti se ne erano dimenticati. Il vulcano si era ricoperto di fitta vegetazione e Strabone lo descriveva come un cono regolare, circondato da bellissime campagne.
La cronaca dell’eruzione
Il 24 agosto, alle ore 13, Plinio vede per prima volta da Miseno una nube, alta fra 13 e 17 km, che gli ricorda la forma di un pino marittimo (in suo onore, la vulcanologia moderna chiamerà queste colonne eruttive pliniane). Gli scossoni della terra provocati dal magma in movimento erano iniziati già da un paio di giorni ed è probabile che anche l’eruzione vera e propria fosse in corso da alcune ore. La nube vista da Plinio era formata da pomici e ceneri, scagliate dal cratere insieme al gas che si liberava dal magma. La “chioma” del pino era inclinata dai venti verso Sud e gran parte delle pomici ricadevano al suolo in direzione di Pompei, rispamiando il lato di Ercolano. Le ceneri, fini e leggere, erano trascinate più in alto e venivano diperse lontano dai venti stratosferici.
Mentre Plinio osservava la nube, giungeva a Miseno un messaggero inviato da amici che imploravano aiuto dai dintorni del Vesuvio. Plinio il Vecchio raccoglie sollecito la richiesta di aiuto e mette in acqua le sue quadriremi. Navigando in favore di vento e di mare, le navi giunsero rapidamente alla costa vesuviana nei dintorni di Ercolano ma, per approdare, dovettero ripiegare verso Stabia dove arrivarono a sera inoltrata. A Stabia, l’amico di Plinio, Pomponiano, aveva già le sue navi pronte a salpare appena il mare si fosse calmato. Nella notte, le pomici continuarono a cadere dalla poderosa nube. Per alcune ore caddero pomici bianche, poi divennero grigie perchè il magma che risaliva in superficie aveva una diversa composizione chimica. Nel momento di transizione da pomici bianche a pomici grigie, l’altezza della colonna era di 24 km.
La fase più drammatica dell’eruzione inizia quando la colonna eruttiva diventa così densa di materiale da non riuscire più a sollevarsi nell’aria. Pomici e ceneri rigurgitate dal cratere scivolarono veloci e caldissime lungo i fianchi del vulcano, spinte dal gas. Al contrario delle pomici che erano cadute dall’alta colonna verso Sud-Est per effetto dei venti, i flussi si irradiarono in ogni direzione, seminando morte e distruzione in un raggio di 10 km dal cratere. Il primo flusso non arrivò a Pompei, ma scivolò rovinoso verso Ercolano che raggiunse in meno di 5 minuti. Le ceneri calde soffocarono e seppellirono gli ercolanesi che avevano cercato rifugio sulla spiaggia.
Prima di collassare e formare i flussi, la colonna carica di pomici grigie raggiunse la sua massima altezza di 32 km. Dopo il primo collasso, la colonna eruttiva tornò alta sopra il vulcano e le pomici continuarono a cadere almeno per un’altra ora, quando si formò una nuova ondata di cenere e pomici. Anche questa scese verso Ercolano, mentre sull’altro lato superò di poco Boscoreale, danneggiò le ville rustiche di Terzigno ed Oplonti, ma non raggiunse Pompei.
Per lunghe ore la colonna eruttiva alternò momenti in cui si manteneva alta nel cielo a momenti in cui collassava vorticosamente lungo le pendici del vulcano. Dopo il secondo collasso, la colonna riprese vigore, pur senza raggiungere l’altezza di prima, e caddero altre pomici. Pompei ne era ormai coperta per quasi tre metri. I tetti cominciavano a crollare (è stato stimato che alcuni solai non hanno retto oltre i 40 cm di prodotti), ma la pioggia di pomici non può aver impedito a molti pompeiani di porsi in salvo. Le pomici caddero sopra Pompei per almeno 12 ore e lo strato a terra superò alla fine i 4 metri.
Il terzo collasso provocò il flusso di materiale che, scorrendo lungo le pendici, raggiunse Pompei all’alba del 25 agosto. Il grosso del flusso scendeva in direzione di Ercolano, che ne fu tutta sommersa, e solo una minima parte si espanse fino alla Villa dei Misteri e alle mura di Pompei.
I flussi scendevano dal Vesuvio formando una nube di particelle di magma solidificato (ceneri, pomici, cristalli, oltre a pezzetti di rocce), tutte vorticosamente spinte dal gas. Durante lo scorrimento, la parte più avanzata del flusso inglobava aria esterna, mentre la base, a contatto con il terreno, assorbiva il vapore derivante dal riscaldamento del suolo. La densa massa rigurgitata dal cratere, dopo un tratto di percorso, aveva alla base uno strato che scorreva più veloce – perchè si era miscelato con l’aria e il vapore – mentre la parte soprastante era più lenta perchè conteneva gran parte delle particelle solide, addensate una vicina all’altra. Progressivamente, il gas si liberava nell’aria, trascinando con sι verso l’alto i frammenti più leggeri, mentre quelli più pesanti cadevano a terra. Così, sopra la parte densa, si formava una leggera nube di cenere che, superando gli ostacoli senza deviare, poteva spingersi anche dove non arrivava il resto del flusso. Il primo flusso giunto a Pompei, il terzo sceso dal Vesuvio, doveva essere una nube di questo tipo, molto ricca in gas, più rapida e più mobile dell’ondata densa da cui si era staccata.
Nella notte, Stabia era scossa da forti terremoti. Plinio il Vecchio, con Pomponiano e gli altri abitanti delle altre ville affacciate sul mare dal Poggio di Varano, decide a questo punto di abbandonare la casa, scegliendo la via di fuga peggiore. Con la testa coperta da guanciali per ripararsi dalla caduta di pomici, scesero verso la spiaggia, pensando di poter fuggire via mare, ma le avverse condizioni impedirono loro di salpare. Plinio resta bloccato sulla spiaggia di Stabia tra le 7,30 e le 8 del 25 agosto dove viene avvolto dai flussi di cenere. Prostrato dalla fatica per aver camminato sopra la cedevole coltre di pomici, con la gola ormai occlusa dalla cenere, si getta a terra sopra un telo e chiede dell’acqua.
Stabia sorgeva cinque km oltre Pompei, in direzione della penisola sorrentina, e la distanza dal vulcano sembrava più che sicura per quanti non conoscevano la potenza distruttiva di questi fenomeni vulcanici. La parte del flusso densa scorreva come un torrente seguendo la conformazione del terreno, mentre la parte soprastante, ricca di gas che spingeva vorticosamente la cenere, scavalcava i rilievi e devastava zone che la parte densa non raggiungeva. I flussi densi causano la morte di quanti hanno la sventura di esserne investiti soprattutto per traumi (fratture, ecc.), urti meccanici e ustioni, mentre i flussi di cenere e gas provocano asfissia per inalazione di cenere calda che aderisce alle vie respiratorie occludendole. Questo deve essere successo a Plinio il Vecchio sulla spiaggia di Stabia.
Intanto, dopo il primo flusso giunto a Pompei, la città è nel panico. Mentre cadevano le pomici, qualcuno è fuggito, altri si sono nascosti nelle cantine e nei locali più riparati e la debole luce del nuovo giorno li sta spingendo all’esterno. Forse, mentre i primi flussi invadevano Ercolano, Boscoreale e Oplonti senza arrivare a Pompei, c’è stato anche chi ha ritenuto di fare in tempo a tornare sui propri passi per recuperare l’indispensabile. Qualunque cosa sia successa nelle frenetiche ore in cui cadevano pomici dal cielo, ormai ogni tentativo di fuga o di resistenza è vanificato dall’aria irrespirabile. Il primo grosso flusso a raggiungere Pompei (lascerà uno strato di circa due metri di cenere), chiude definitivamente l’interminabile pulsare della colonna eruttiva e seppellisce i pompeiani già mortalmente colpiti. Il passaggio sopra la città di questo flusso fu disastroso. Spessi muri e intere pareti perpendicolari al suo percorso vennero rovesciati di netto, così come furono travolti i tetti e gli ultimi solai che ancora reggevano. Il materiale vulcanico correva con una velocità prossima agli 100 km orari, trascinando una gran quantità di pietrisco, intonaco, travi e tegole degli edifici che distruggeva. La sua furia irruppe dall’alto su quanti forse ancora resistevano al chiuso dei rifugi più isolati. Dopo questo flusso, tutta l’area intorno a Vesuvio doveva essere simile a un deserto grigio.
I flussi finirono intorno alle 10,30 del 25 agosto. Le immani ondate che causarono la maggior parte delle vittime e delle distruzioni a Pompei, Ercolano, Oplonti, Stabia oltre che di innumerevoli ville disseminate nella fertile campagna ai piedi del Vesuvio e lungo la costa, durarono meno di quanto si sia pensato un tempo vedendo lo spessore dei depositi (nella zona di maggiore accumulo a Ercolano superano i 20 metri). Dopo i flussi, l’acqua delle falde sotterranee si riversò sulle rocce riscaldate dal magma, provocando una successione di violente esplosioni che scuoteranno il vulcano ancora per qualche tempo. L’intera eruzione deve essere durata non più di due giorni e mezzo.
Per lungo tempo gli effetti dell’accumulo di enormi masse di materiale incoerente si ripercossero intorno al Vesuvio. Mentre le piogge portavano a valle torrenti densi di fango misto a ciottoli, in pianura i fiumi Sarno e Sebeto, sbarrati dai prodotti vulcanici, cercavano un nuovo sbocco verso il mare. Lungo il litorale che va da Torre Annunziata a Torre del Greco, sopra i prodotti dell’eruzione del 79, si vedono ancora oggi i depositi di materiale caotico trascinato a valle dalle piogge dopo l’eruzione.

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