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NEANDERTHAL. Furbi, generosi e raffinati. Che Sapiens, i Neanderthal.

Svanirono 30 mila anni fa e passo’ molto tempo perche’ uno di loro ricomparisse: il primo, sotto forma di pochi frammenti fossilizzati, si fece vedere in Belgio nel 1829, ma con effetti quasi nulli.
Un altro aspetto’ ancora e si materializzo’ in Germania solo nel 1856 e, finalmente, il momento si rivelo’ appropriato. La valle era quella di Neander, non lontano da Dusseldorf, e li’ fu celebrato il battesimo postumo: da quel momento la «creatura» era diventata l’«uomo di Neanderthal», il nostro predecessore piu’ celebre ed enigmatico.
Quando, 3 anni dopo, Charles Darwin pubblico’ l’«Origine delle Specie» comincio’ a maturare l’idea che l’essere con la fronte sfuggente e le gambe tozze fosse la prova della remota discendenza scimmiesca dell’uomo. I Neanderthal – si ripeteva con compiacimento – avevano corteggiato la brutalita’, erano stati forti piu’ di un moderno palestrato ma segnati da un’irrimediabile ottusita’.
Conclusione: con un cervello non perfettamente messo a punto dall’evoluzione era inevitabile che si facessero mettere al tappeto dagli agili e astuti umani fuggiti dall’Africa. Non avevamo capito niente. Al punto che quest’anno uno dei maggiori biologi evoluzionisti, l’americano Ernst W. Mayr, ha proposto di cambiare la carta d’identita’ della «razza umana».
Ognuno di noi – ha spiegato – e’ in realta’ un Homo Sapiens Neanderthalensis, vale a dire il frutto di un mix genetico tra «loro» e «noi».
Il sequenziamento di molti tratti del Dna dei Neanderthaliani – uno dei successi scientifici del 2010 – ha buttato all’aria polverose certezze. Se abbiamo fatto la guerra, abbiamo anche fatto l’amore, all’incirca 45 mila anni fa, ed eccoci qui: nella doppia elica portiamo innumerevoli tracce dei cugini che hanno condiviso con noi le pianure dell’Europa, le steppe della Russia, le coste del Mediterraneo. E allora, di colpo, tutto si spiega. Gli indizi emersi negli ultimi anni hanno svelato scenari che gli esperti giudicano sconvolgenti.
I Neanderthal non si limitavano a rifugiarsi in anfratti e caverne, ma costruivano rifugi con pali di legno conficcati al suolo. Controllavano il fuoco e dopo una buona bistecca cantavano e suonavano, come dimostra il primo flauto d’osso (emerso nel sito di Divje Babe, in Slovenia, risale a 43 mila anni fa). Si confezionavano vestiti e ammorbidivano le pelli in stile Inuit: lo suggeriscono gli incisivi anneriti e consumati, che contrastano con molari generalmente in ottime condizioni. Erano anche cacciatori versatili, capaci sia di pescare salmoni sia di ammazzare mammuth, adattando le strategie a seconda che si spostassero in pianura o si nascondessero nelle gole. I loro strumenti, poi, eccellono come esempi di ingegneria: le lance e le punte di frecce, per non parlare della colla con cui, 80 mila anni fa, facevano aderire il legno alla pietra. Nemmeno la morte metteva fine alla loro avventura. I defunti venivano seppelliti e sopravvivevano nel ricordo della tribu’: a La Chapelle-aux-Saints, in Francia, sono stati trovati i resti di un individuo accovacciato in posizione fetale e cosparso di terra colorata, mentre a Teshik-Tash, in Uzbekistan, quelli di un bambino a cui erano state regalate per l’ultimo addio alcune corna di stambecco.
Dalla caverna di Shanidar, in Iraq, sono emersi i pollini di diverse erbe mediche, che gli antropologi attribuiscono a pratiche funerarie e sciamaniche. E non basta: dai fossili di un acciaccato anziano si desume che i feriti e gli invalidi fossero assistiti dal gruppo.
Negli scavi in Spagna Joao Zilhao della University of Bristol e Francesco d’Errico dell’Institut de Pre’histoire di Talence sono arrivati alla conclusione che nella vita quotidiana si decorassero il corpo con pigmenti gialli e rossi e collezionassero conchiglie lavorate, come gioielli. Evidentemente non pensavano solo al cibo e al sesso. Distinguevano il bello dal brutto e i loro pensieri dovevano avere molti punti di contatto con i nostri, erano cioe’ simbolici. A rafforzare l’ipotesi ci sono gli studi di Ralph Holloway della Columbia University: secondo lui, i cervelli dei Neanderthal possedevano lobi frontali e aree del linguaggio prossimi ai Sapiens e non e’ un caso se, intanto, i test hanno individuato nel loro Dna una versione di Foxp2, il gene associato alla parola. Altro che grugniti, quindi: la biologia li aveva messi in condizione di comunicare e lo confermerebbe la presenza dell’ossicino ioide alla base della lingua. Sebbene non fossero in grado di articolare la gamma completa dei nostri suoni (qualche vocale restava strozzata nel «Neanderthaliano»), un famoso studioso – Eric Trinkaus della Washington University – si spinge a sostenere che in fatto di capacita’ di ragionamento ci fossero quasi alla pari.
Insomma, per quanto la pubblicazione del genoma resti incompleta e i dati ottenuti sul campo siano disperatamente frammentari, i bruti sono diventati angeli e anche la loro fine viene rimessa in discussione: per Clive Finlayson a metterli al tappeto fu il loro stesso organismo, non cosi’ adattabile come quello dei nemici Sapiens, e secondo Chris Stringer furono semplicemente sfortunati a dover affrontare una duplice sfida: un periodo di instabilita’ climatica associato all’invasione di concorrenti psicologicamente determinati e fisicamente allenati al combattimento. Forse e’ andata proprio cosi’. O forse no.
In una caverna del Nord della Spagna e’ stata scoperta la fossa comune di una famiglia di 12 Neanderthaliani: furono catturati da una tribu’ avversaria e divorati in un macabro banchetto di guerra.
I Neanderthal – sostiene Carles Lalueza-Fox – erano gente spietata, con l’inguaribile vizietto del cannibalismo.  

Autore: Gabriele Beccaria

Fonte: La Stampa.it, 05 gennaio 2011

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