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Mario Zaniboni. Vergine di Norimberga. Realtà e fantasia.

La storia, purtroppo, fra le tante cose belle e brutte che la costellano, ricorda pure l’abitudine di colpire gli autori veri, o fasulli che fossero, di certi comportamenti criminali oppure per conoscere particolari segreti, ricorrendo alla tortura, che veniva praticata secondo modalità o usando strumenti che solamente menti bacate o perverse potevano immaginare.
Di questi, uno degli strumenti ritenuto fra i più dolorosi e terrificanti che potessero essere inventati e usati contro qualche disgraziato, fu la cosiddetta “Vergine di Ferro ” o anche “Vergine di Norimberga”, ideata nel XVIII secolo. Però, quando studiosi e storici vollero approfondire la conoscenza di tale mezzo di tortura e di riscontrare il suo uso nel Medioevo, si resero conto che non era richiamato da nessuna parte e che non si trovava riscontro in nessun documento, giungendo alla conclusione che – e meno male – non sia mai stato utilizzato.
Ma vale la pena di farne menzione, per vedere una volta di più quanto la mente possa inventare mezzi per fare del male agli altri, dimostrando la sua cattiveria ed il suo sadismo congenito, mettendo in atto sul prossimo pratiche feroci, crudeli, umilianti e aggressive, spesso per provare il piacere di vedere altri soffrire.
Quello strumento di tortura è costituito di ferro e la sua forma ricorda il profilo di un contenitore adattato per un corpo umano, costellato all’interno da punte affilate e acuminate. Per torturare la vittima (qualora ci fosse realmente stata) veniva immessa al suo interno e, con la sua chiusura, il corpo veniva trafitto dalle punte, le quali erano disposte in modo da non rovinare organi vitali, rendendo in tal modo la tortura lenta e continua, facendola agonizzare per ore e ore, finché la morte non le procurava l’agognato sollievo.
Ma ci si può chiedere come mai un oggetto, che in pratica non fu mai utilizzato, possa essere entrato nella storia della tortura. Il fatto deriva dall’esposizione di una “vergine di ferro”, avvenuta nel XVIII secolo a Norimberga, quale antico strumento di tortura. La sua vista fece rabbrividire i visitatori, facendo loro accapponare la pelle, ma, successivamente, fu riconosciuta come il risultato dell’assemblaggio di pezzi di altri vari oggetti antichi effettuato da un artigiano.
E, pur essendo stato chiarito quanto sopra, le voci portate in giro da visitatori e da giornalisti, il fatto divenne di dominio pubblico, tanto da indurre abili lavoratori a costruirne copie da distribuire in musei e collezioni private, come esempio di strumenti di tortura.
Fra i vari storici, che si sono interessati alla “Vergine di Norimberga”, alcuni ritengono che ci sia stata confusione con altri strumenti di punizione, fra i quali si può ricordare, per esempio, le gabbie metalliche, in uso nel periodo medievale, in cui venivano rinchiusi i criminali per essere esposti al pubblico ludibrio e come monito. Ma pare impossibile che tale confusione possa esserci stata, considerata la evidente differenza fra i due contenitori.
Quello strumento di tortura ebbe moltissimi visitatori, tanto che molti musei fiutarono l’affare, facendone costruire copie opportunamente pubblicizzate con l’accoppiamento di racconti sensazionali, ricavando la soddisfazione di vedere tanta gente di curiosi precipitarsi per ammirarle.
Le torture medievali, quelle veramente inflitte, erano attuate con l’uso di attrezzi meno sofisticati e di più pratica applicazione. Si possono ricordare la ruota, il cavalletto, il tratto di corda, le tenaglie, tanto per ricordarne qualcuno, che si ritrovano nominati nelle relazioni di processi, nei manuali degli addetti alle indagini, nei trattati legali; ma della “vergine di ferro” niente.
Comunque, per concludere, si può ricordare una volta ancora che gli esperti, per la maggior parte, sono dell’avviso che la “vergine di ferro” non sia mai stata utilizzata e che la sua nomea sia stata dovuta ad interpretazioni distorte della realtà.
La dimostrazione, una volta di più, di come un mito possa prevalere sulla certezza e sull’ovvietà.

Autore: Mario Zaniboni – zamar.22bluibero.it

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