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ITALIA. Non si scava.

Come noto, la settimana che si sta concludendo ha visto molte discussioni nate a seguito degli effetti della circolare emanata il 4 dic. 2012 (Prot. 11546) da Luigi Malnati, direttore generale per i beni archeologici del MIBAC.
Riassumiamo brevemente i fatti.
La circolare, oltre a richiamare il contenuto di precedenti circolari, precisava nuovi adeguamenti necessari per due motivi: il contenimento delle spese derivanti dalla corresponsione del premio di rinvenimento ai privati e la soppressione del Comitato tecnico di settore (avvenuta nel 2012) “che obbliga tutti i soggetti interessati alla procedura ad una migliore esplicitazione delle motivazioni dell’intervento, ricadendo ormai solo su questa direzione la responsabilità della loro approvazione”.
Sulla base di queste considerazioni, non collegate comunque con chiarezza, sono conseguite una serie di direttive e tra queste, cito, “non saranno più date concessioni di scavo in terreni privati, salvo particolari e motivate esigenze”; “le ricognizioni territoriali per le quali a volte si è abusato dell’istituto della concessione, andranno gestite tramite altri strumenti amministrativi”.
Sin dalla fine di febbraio e dai primi giorni di marzo 2013 sono così seguite bocciature a raffica in risposte alle domande di concessione di scavo per il 2013. Richieste in particolar modo legate soprattuto alle attività di ricerca delle università (che scavano molto su spazi aventi tali caratteristiche) con insegnamenti di Archeologia attivati e dediti ad attività sul campo come principale strumento di ricerca e di insegnamento.
Sia in sedi universitarie sia sui media e sulla rete, si è subito accesa la discussione, con prese di posizione quasi radicali sulla base dei diversi punti di vista esperiti.
Gli esponenti delle università hanno considerato inaccettabile il rifiuto di concessioni su terreni privati, relegando l’Università stessa nel mero campo della formazione.
Il Ministero è invece parso preoccupato, nel tentare questa via, di arginare il flusso di risorse legate alla corresponsione dei premio di rinvenimento. Altri, in particolare le associazioni dei professionisti dell’Archeologia, hanno più o meno evitato di entrare nella discussione sino ad evitare o limitarsi a registrare la notizia della protesta che si stava sviluppando sulla rete e sui media. Infine molti, a titolo personale, soprattutto archeologi free lance, intervenivano negli svariati post che la “viralità” della rete centuplica, o nei blog che hanno dedicato spazio, prendendo posizione contraria od a favore della circolare ed allargando la riflessione (talvolta le invettive) verso le stesse Università e mettendone in discussione il tipo di formazione data, il non aver concorso a garantire le condizioni per un lavoro alla massa dei laureati in uscita nonché contestazioni generalizzate se non ormai stereotipate, facendo di tutta un’erba un fascio, sull’operare da casta dell’Università stessa e dei meccanismi che la regolano. Si può quindi affermare che gli effetti della circolare del 4 dicembre 2012 hanno catalizzato anche tutta una serie di istanze, che poco hanno a che vedere con la circolare in se stessa, ma che riguardano il mondo dei beni culturali e dell’Archeologia a tutto tondo. D’altronde in questi ultimi anni e di fronte alla situazione sotto gli occhi di tutti, molti di questi temi sono stati e sono caldissimi, colpiscono nervi già da tempo scoperti ed alla fin fine non poteva che accadere quanto esposto.
Il giorno 14 marzo 2013, a Roma presso il Museo Nazionale Romano, intervenendo al convegno organizzato dalla CIA (Confederazione Italiana Archeologi) Discovering archaeologists of Europe. Digging in the crisis, il direttore generale Luigi Malnati dichiarava che “Se i proprietari dei terreni rinunciano al premio di rinvenimento o il concessionario trova uno sponsor le Soprintendenze possono riprendere in esame le richieste di scavo in terreni privati e dare la concessione dopo avere riesaminato le richieste e la documentazione”.
Nello spazio di poche ore le Università hanno ricevuto una mail dalle soprintendenze archeologiche delle proprie regioni che sancisce quanto detto dal direttore Generale al convegno CIA; la mail, con allegata una nuova circolare datata 14 marzo 2013 della Direzione Generale per le Antichità (ed il relativo parere dell’Ufficio Legislativo del MiBAC), riporta alcune integrazioni alle disposizioni per l’anno 2013 aventi per oggetto gli scavi da effettuarsi in proprietà privata; si informa che sarà possibile integrare le domande di concessione già prodotte, inviando come integrazione la dichiarazione di rinuncia al premio di rinvenimento da parte del proprietario del terreno oggetto dell’attività di scavo, o in alternativa una dichiarazione della presa in carico, da parte dell’Ente richiedente o altro soggetto coinvolto, degli oneri derivanti da un’eventuale richiesta di premio. Tale documentazione potrà essere prodotta anche per le richieste già rifiutate dall’Amministrazione, consentendone un riesame.
Come ho già detto l’intera vicenda ha aperto la porta ad istanze di un riesame a tutto tondo del rapporto fra ricerca, tutela, formazione, professione. Rinfocolando necessità, frustrazioni, necessità di cambiamenti che alla fin fine coinvolgono tutti coloro che si occupano di Archeologia.
In questa sede, limitata dal “max di battute possibili” non entrerò nel dettaglio di ognuno degli argomenti di discussione, anche se intimamente legati.
Mi riservo, come credo gli altri intestatari di questa pagina, di affrontare e dibattere tutte le diverse posizioni e situazioni in altri momenti, probabilmente a partire dall’apertura di quel blog di prossima uscita e già annunciato da EZ nella giornata di ieri al III Congresso ANA (Associazione Nazionale Archeologi) “L’archeologia che vogliamo l’Archeologia che faremo”, per il quale abbiamo già registrato il brand e che vedrà completare il sistema di comunicazione che stiamo costruendo.
Voglio invece ragionare a voce alta sulla base della mia posizione di docente di Archeologia del rapporto con il Mibac e della situazione che ci stiamo trovando a vivere. Questo non ha e non vuole avere il significato di attaccare il Ministero stesso; si tratta invece di una riflessione più larga, molto laica, sulla ricerca archeologica nelle università prendendo spunto dagli eventi conseguiti alla circolare.
Nonostante credo si debbano leggere meglio ed analizzare in dettaglio sia la nuova circolare sia l’allegato parere dell’ufficio legale del Mibac, resta il fatto che gli eventi recenti (alla base la necessità di contenere la corresponsione di premi di rinvenimento che oggi ha raggiunto grandi numeri ma che, in realtà, credo possa trattarsi di una cifra accumulatasi negli anni dati i tempi lunghissimi che contraddistinguono ogni forma di pagamento dello Stato) hanno nuovamente messo sotto i riflettori come le università, motori importanti della ricerca, in realtà non godano di tale libertà; e di come in senso più generale, citando Antonio Labriola, «Lo stato, che definisce la scienza, è già una chiesa».
In altre parole, occorre riflettere bene, ed alla svelta, sul ruolo delle Università nella conoscenza (che spetta di diritto e non lo si può negare o togliere) e nel ruolo che il Mibac e la sua composizione dovrà avere in futuro; un futuro nel quale dovranno esserci riforme in questa direzione, evitando due corpi dello Stato (Ministero e Università) che collidono; ripristinando anche quel Comitato di Settore (eliminato dalla spending review del governo Monti), od un organo simile, che fungeva da camera di compensazione per casi del genere o per particolari episodi, la cui assenza contribuisce a creare un confronto muro contro muro che non giova a nessuno.
Credo che la richiesta di concessione da parte delle università o di un altro ente pubblico (talvolta i concessionari sono proprio quelle amm.ni comunali che ci chiedono di svolgere ricerche sul loro territorio ai fini di una futura valorizzazione fondata sulla conoscenza), essendo ognuno parte dello stesso Stato ed ognuno istituzione pubblica, sia di per sè una pratica da superare individuando una nuova formulazione.
Ma se deve continuare ad essere effettuata la richiesta, il parametro discriminante sulla concessione di scavo dovrebbe essere il rispetto di alcune norme (come la pubblicazione dei dati in un tempo prestabilito e il reinterramento del contesto per esempio) e la qualità delle ricerche.
Rifiuti in tal senso possono essere accettati ma non sulla base della proprietà privata o demaniale del terreno.
La mancata formazione degli studenti e dei futuri archeologi all’interno di un progetto (dove si insegna a raccogliere, studiare, elaborare, portare a sintesi e modellizzare i dati archeologici) significa infatti costruire proprio degli archeologi indipendentemente dalla proprietà del terreno sul quale risiede il contesto, scelto in base alle nostre tematiche, vocazione ed esigenze di ricerca.
Insomma se limiteranno i nostri interessi di ricerca lavorando solo su terreni demaniali, da un lato la conoscenza (e la tutela) riceverebbero danni, e dall’altro tanto vale che la formazione venga fatta dalle ditte edili, sminuendo a semplice operaio specializzato l’archeologo e privandolo sin da subito, nella sua libera professione, di quel lavoro intellettuale (del quale deve far parte anche lo studio e la pubblicazione) per il quale da più parti si rivendica il riconoscimento.
Qualità della ricerca, quindi, e pubblicazione dei dati dovrebbero costituire i primi se non unici, elementi discriminatori; mentre, se si deve continuare ad operare tramite concessioni, forse occorre avere concessioni più ampie (almeno 5 anni; pratica anch’essa abolita), di fronte a progetti di ricerca seri e di riconosciuto valore scientifico.
Per esempio, almeno in Toscana, siamo già tenuti a pubblicare il rapporto di scavo su Fasti on line e sul Notiziario della Soprintendenza ogni anno, pena il rifiuto della pratica per la richiesta della concessione di scavo. Di conseguenza, in attesa delle edizioni definitive degli scavi, le Università danno sempre notizia delle loro attività (ripeto, in Toscana due volte: Fasti e Notiziario). In definitiva forniamo già i dati per essere valutati.
In senso più largo, contrariamente a quanto pensino molte componenti dell’opinione pubblica, le Università si sono dotate da tempo di un doppio sistema di valutazione che investe le attività dei docenti; una valutazione anonima degli studenti (che poi viene resa pubblica in rete) e l’articolata autovalutazione dell’Anvur (basata sulle attività svolte e su quanto si pubblica) che pur con i suoi limiti costituisce uno strumento in cui la qualità di come si opera non sfugge.
Quindi nessun timore a farsi valutare anche per la qualità degli scavi (se esiste cattiva archeologia nelle università è bene che venga fermata) e su determinati parametri da concordare.
Al tempo stesso, proprio per il destino dei beni culturali, della ricerca e della tutela, sarebbe auspicabile che la valutazione avvenisse per tutti coloro che operano sul campo; quindi oltre che per le università, per i soggetti privati e per i funzionari; chi certifica la qualità del lavoro? Quanti cantieri fra le migliaia presenti in Italia vengono pubblicati evitando il depauperamento della conoscenza?
Insomma, si dovrebbe puntare alla qualità su ogni campo, alla trasparenza degli scavi e dei dati da essi provenienti, sino ad arrivare ad una qualificata rappresentanza di archeologi (pubblici e privati) in grado di dare ampie garanzie di buona pratica.
Infine c’è da regolare la pratica delle ricognizioni di superficie (mezzo principe per individuare i potenziali archeologici di interi territori) che non possono più passare dalle forche caudine di una convenzione, o di un accordo quadro, se non da una concessione (…. quando i cacciatori entrano come e dove vogliono); ed anche sulle sue modalità, come il divieto di raccolta dei materiali mobili: nessuno rovina il deposito o la visibilità del sito (che invece viene alterato ogni anno dalle storie agricole del terreno).
In conclusione, tanti temi aperti che per un’archeologia contemporanea e rinnovata (in un momento storico come questo, in cui bisogna rinnovarsi su tutto) vanno ragionati, affrontati, corretti, nell’ottica che nessuno di noi lavora ai danni dello Stato ma per il bene del patrimonio dello Stato e della sua conservazione che non avviene senza la sua conoscenza. Trovando le forme di operare congiunto ed evitando occasioni di scontro o frizione come quelle testè vissute.

Fonte: Facebook Archeologia Medievale, M.V, 17 mar 2013

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