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Emanuela CARDARELLI. Perché Dio si chiama Dio.

Massimo Consoli è autore di un breve saggio molto interessante intitolato “Perché Dio si chiama Dio”, in cui spiega l’origine della parola “Dio” nelle due grandi aree culturali e linguistiche (logosfere), quella dravidico-indoeuropea e quella semitica.

Alla prima area appartengono numerose lingue: sanscrito, persiano, greco, latino (e tutte le lingue derivate da quest’ultimo) e le lingue anglosassoni (con i loro derivati).

Scrive Massimo Consoli: Ora noi vediamo che in sanscrito il toro si chiama “Go”, che diventa “Gwt” nell’altdeutschesprache arcaico, e poi “Gott” in tedesco, “Gud” in scandinavo e “God” in inglese, mentre ancora oggi, sempre in inglese, “goat” vuol dire capra ed anche il caprone era una divinità importante (da cui, tanto per portare un esempio, venne fuori il dio Pan, che a sua volta servì da modella per il dio degli Inferi, il Diavolo).

In molte società tribali, inoltre, certi animali con le corna diventavano totem e poi divinità protettrici dell’intero popolo.

Uno di questi animali era proprio il toro, che veniva adorato dagli stessi ebrei e, nella Bibbia, il “vitello d’oro” viene descritto come una “ricaduta” nelle loro vecchie credenze. Quando Mosè discende dalla montagna con le Tavole della Legge ha sul capo un paio di corna (come nel Mosè di Michelangelo), che in seguito poi si volle far passare per due “coni di luce”.

Lo stesso nome Italia viene da “Vitalia”, cioè “terra dei vitelli”, nome che anticamente designava la Calabria, dove veniva venerato il toro.

Secondo Consoli, anche il verbo “godere” ha un’origine indoeuropea che deriverebbe proprio da “Go” = “Dio”, nel senso di “essere profondamente felice”, “provare piacere con i sensi”. La provenienza dal latino “gaudere” col dittongo “au” non contraddice questa ipotesi, visto che spesso questo dittongo si trasforma in “o” in italiano (pauper -> povero).

Anche nelle aree culturali non indoeuropee in cui non esistevano grandi animali con le corna è possibile rintracciare un totem tribale linguisticamente affine al “Go”. Si tratta del cammello, che i fenici chiamavano “gomal” e che ha dato origine alla lettera greca gamma (g) per la somiglianza tra la lettera e le gobbe dell’animale.

Comunque sia, in tutta l’antichità pre-ariana il toro viene associato alla divinità: basti pensare al Minotauro cretese, al dio Api egiziano, al Cernunno Signore degli animali e al dio Mitra.

Prosegue Consoli: Questo animale (sinonimo di bontà) rappresenta anche la forza virile (ricordare in inglese “horny” = “eccitato”) e le sue corna vengono portate dai “capi” sul “capo”. La corona in effetti nasce proprio da un paio di corna indossate come copricapo regale.

Di fronte al rappresentante dell’autorità divina, il fedele si “prosterna”. Forse, cioè, gli offre la sua prostata, “sottomettendosi”, che vuol dire proprio “mettendosi sotto”, in senso fisico, sessuale, visto che il toro è il “simbolo del principio attivo produttore di seme”. Da cui ne segue l’adorazione del fallo, caratteristica comune a tutto l’universo shivaita-dionisiaco, e ancora oggi praticata in India (il “linga”), e che presenta delle chiare reminiscenze nel modo di pregare dei musulmani (che si prosternano, offrendo il loro posteriore al Dio), degli ebrei (che muovono ritmicamente la testa avanti e indietro) e dei cristiani (che giungono le mani a sublimazione di un atto oro-genitale certo più complesso).

Altre culture hanno evidenziato in maniera più macroscopica questa forma di omaggio verso il proprio Dio (o meglio, verso il suo rappresentante-vicario sulla terra) avvicinandoglisi camminando all’indietro per offrirgli in maniera più o meno simbolica il proprio posteriore.

Di conseguenza occorre riconsiderare tutte quelle immagini antiche, egizie, indiane e greche nelle quali è rappresentato un dio itifallico con un giovane che cerca di allontanarsi da lui (perlomeno è così che è sempre stato interpretato). In realtà è molto più probabile che gli si sita avvicinando camminando all’indietro per sottomettersi alla sua divinità.

Questa pratica è diffusa anche tra i primati che, da giovani, possono assumere una posizione femminile per garantirsi la protezione di un maschio adulto. Il maschio che assume la posizione femminile può avvicinarsi al maschio più anziano camminando all’indietro.

Nell’area culturale dravidico-indoeuropea l’altro nome usato per indicare Dio era “DiFos”, da cui il graco “Theos” e “Zeus”, ed il latino “Deus”. Alla sua base c’è il concetto di “luce” ed infatti tutti gli dei vengono rappresentati avvolti in un alone di luce (aura) o con un’aureola intorno al capo, come ancora oggi avviene per i santi cristiani e come si usava in India e nell’Islam.

Per quello che infine riguarda la logosfera semitica, Dio è indicato con il suono della lettera L e con le sue varianti “El”, “Il”, “Elu”, che ci danno l’ebraico e l’aramaico “El, ed “Elohin”, il siriaco “Aloim” e l’arabo “Hl”. Da “Hl” viene “Al Hilah”, dove Al è un articolo determinativo che, unendosi alla parola successiva per elisione della “i”si dà “al-lah” e dunque “Allah”, che vuol dire “il dio”.

Questa labiale semitica è entrata nella composizione di molti nomi ebraici diffusi anche il italiano: Gabriele, Raffaele, Michele, Emanuele, Daniele, Samuele, ecc.

Per concludere, possiamo ricordare che nell’alfabeto fenicio il segno grafico per indicare la prima lettera, la “A”, veniva da “Alef”(א), che significava “bue” ed era proprio la stilizzazione di una testa di toro che col tempo ha cambiato posizione (a causa del variare del senso della scrittura) finché oggi le sue corna sono diventate le gambe della “A”.

“Alif” e “Aleph” sono ancora oggi rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto arabo e di quello ebraico, e Alef è anche all’origine dell’”Alfa” dell’alfabeto greco.

Bibliografia:

Massimo Consoli, Perché Dio si chiama Dio, in “Alla scoperta dell’Amore”, di John Boswell (ediz. Libreria Croce).

Autore: Emanuela Cardarelli

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