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Alfonso STIGLITZ. L’archeologo e l’urbanistica.

Può un archeologo parlare di urbanistica? E, soprattutto, può farlo parlando di una città come Cagliari, pluristratificata in senso archeologico e, quindi storico, ma anche politico (e partitico), sociale ed economico? Può farlo perché è dotato di strumenti di analisi del terreno che gli permettono di valutare, appunto, quelle stratificazioni nel tempo e nello spazio. Può farlo perché l’urbanistica, con i suoi corollari edilizi incide sull’archeologia, spesso ignorandola, quindi facendola scomparire, talvolta alla lettera, vedi la palazzata di Viale Sant’Avendrace, completata di recente, o nascondendola alla vista, come è successo all’anfiteatro e alle aree archeologiche sotto i palazzi, trasformate in sottoscala attrezzati, certo salvaguardate, ma al buio.
Può farlo perché l’archeologia incide sull’urbanistica quando tenta, spesso senza successo, di far sentire la propria voce, percepita con fastidio, come mero vincolo alla libera espressione piuttosto che come memoria collettiva, identità del luogo e risorsa sociale ed economica.
Può farlo anche quando l’archeologia è parte integrante del processo progettuale urbanistico esclusivamente nelle sue componenti istituzionali con l’esclusione del restante mondo scientifico.
Il caso di Tuvixeddu-Tuvumannu è stato in questo significativo, con la divaricazione tra la componente istituzionale (Soprintendenza) e il resto del mondo archeologico (Università e ricercatori autonomi), sfociando negli importanti documenti proposti dalle Università di Cagliari e di Sassari.
Un dialogo mancato perché, in generale, non ricercato da entrambe le parti e perché la programmazione urbanistica si svolge solo ed esclusivamente su canali amministrativi, legati a una visione centralizzata del Bene Culturale e, questo, non solo per la componente statale ma anche per quella regionale e comunale.
Il caso di Tuvixeddu-Tuvumannu può essere emblematico per le tante sfaccettature del discorso. Della scomparsa di ampie porzioni dell’area archeologia si è spesso parlato, vedi le devastanti attività di cava, la palazzata di viale Sant’Avendrace, l’intensa edificazione dell’area di via Montello – via Is Maglias, via Bainsizza, via Vittorio Veneto, gli interventi costruttivi dell’Università (Ingegneria, Lettere e Casa dello Studente) e via dicendo. Un po’ meno si è parlato della pianificazione urbanistica del colle, proprio partendo dalla sua tutela. Tutelare il colle e il suo paesaggio archeologico nella sua completezza, anche nelle parti già sconvolte significa fare un discorso di urbanistica sostenibile.
Si è parlato poco, ad esempio, del fatto che le centinaia di nuovi appartamenti da realizzare, poco utili al fine della soluzione del problema casa di Cagliari, imporranno dei gravami alla collettività e, in particolare, al quartiere con il migliaio di nuove macchine che, necessariamente, percorreranno la via Is Maglias e con la strada di scorrimento veloce che crea una separazione urbana, oltre che della necropoli, percettivamente non dissimile dall’asse di scorrimento che segna il confine del quartiere di Sant’Elia separandolo psicologicamente dalla città, pur non essendo una barriera insuperabile. Un quartiere che si conformerà, più di quanto non fosse già, come dormitorio separato dal resto della città, privo di identità storica e geografica e come sempre anonimo, anche se progettato da capaci architetti (anche il quartiere di S. Elia ebbe, se non ricordo male, capaci architetti).
Il tema urbanistico è stato, salvo qualche eccezione, vistosamente assente dal dibattito sul progetto di Tuvixeddu-Tuvumannu e ci sarebbe da chiedersi perché. L’esempio sotto gli occhi di tutti è proprio quello di Viale Sant’Avendrace, un settore della necropoli caratterizzato dalle tombe romane realizzate su più livelli del costone roccioso, ma sempre in connessione con una strada. Le tombe, infatti, sono tutte dotate di una facciata, oggi spesso danneggiata o nascosta dalle costruzioni moderne, che riproduceva elementi tipici dello spazio urbano (templi, come la Grotta delle Vipere o abitazioni civili, come quella di Rubellio); questo dava alla necropoli l’aspetto di una città, la “città dei morti”. Alcune delle tombe (Rubellio e Grotta delle Vipere) fanno uno specifico riferimento alla loro posizione rispetto a una strada, interpellando direttamente il viandante (il viator) e invitandolo a guardare attentamente le tombe e a riflettere sul loro significato.
Ciò significa che lo spazio antistante le tombe e la loro visibilità dalla strada sono parte integrante e indispensabile della qualità dell’area archeologica. Pertanto, la realizzazione di palazzi davanti a quelle strutture funerarie, tali da precludere la visibilità dal Viale Sant’Avendrace, incide direttamente sull’area archeologica creando un danno, non solo visivo e paesaggistico, ma alla natura stessa dell’insediamento archeologico. La prepotenza della rendita fondiaria, la banalità progettuale dei costruttori, l’insipienza urbanistica dell’Ente pubblico, la debolezza degli organismi di tutela, tutto questo ha prodotto quell’autentico mostro culturale rappresentato dalla palazzata di viale Sant’Avendrace. E questo esempio mostra, anche visivamente, tutta l’assenza di un dialogo tra archeologia e urbanistica e la povertà progettuale di quest’ultima. E prefigura l’avvenire dell’altro versante, quello di via Is Maglias.
Il richiamo al viator ci porta a un altro esempio, relativo alla recente approvazione dell’accordo di programma sulla metropolitana di Cagliari che apre ampi scenari a questo discorso. In primo luogo sul dibattito se debba essere di superficie o sotterranea; e qui, va detto, non si è sentita alcuna voce archeologica, eppure, il caso della metropolitana romana, presente sulla stampa da mesi, avrebbe potuto stimolare qualche osservazione. Una metropolitana sotterranea in ambito urbano avrebbe un immediato impatto devastante in una città pluristratificata come Cagliari; i percorsi da Piazza Repubblica a Bonaria, da via Roma a viale Sant’Avendrace, per fare alcuni esempi, inciderebbero sul cuore abitativo della città. E, difficilmente, potrà essere mitigato con l’ipotesi di scendere al di sotto del livello archeologico, come si è fatto a Roma, per la difficoltà dell’opera (pensiamo a livello marino di Bonaria e via Roma) alla potente falda d’acqua della zona di Sant’Avendrace e, soprattutto, ai relativi costi.
Ma l’intervento archeologico sulla metropolitana, anche quella di superficie non si limita alla riduzione del danno e alla mitigazione del rischio (vedi il problema delle stazioni o dei nuovi tracciati, soprattutto extraurbani), può invece farsi promotore di una valorizzazione dei percorsi del treno lungo l’archeologia e la storia di questa città e del suo hinterland. A partire dallo snodo intermodale presso la stazione ferroviaria di Settimo San Pietro che sorge presso la straordinaria area archeologica di Cuccuru Nuraxi, incentrata sul pozzo sacro nuragico e sull’Arca del Tempo, una struttura multimediale per un viaggio virtuale nei paesaggi cagliaritani: una stazione che può diventare porta per l’ingresso all’area archeologia. Ma l’intero percorso della metropolitana verso la città costeggia aree archeologiche e, soprattutto, uno straordinario paesaggio rurale. In città questo può trovare conferma nella possibilità di proporre fermate presso i più interessanti punti di vista storici, in sostanza all’utilizzo della metropolitana come accesso privilegiato ai beni archeologici e storico-artistici.
Allora parlare di urbanistica con l’archeologo può significare trasformare un vincolo in una risorsa. L’invocazione al viator, espulso dalla progettazione urbana cagliaritana, può tornare a essere la nostra guida nel discorso sull’urbanistica e sui progetti di mobilità urbana. Il viator come linea guida per un confronto tra archeologia e urbanistica che non resti confinato nelle chiuse stanze istituzionali.


 


Fonte: Il Manifesto Sardo 01/06/2008
Autore: Alfonso Stiglitz

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