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SIRACUSA. Ritrovato un elefante nano vissuto 150.000 anni fa.

A pochi passi dalle acque cristalline che attirano turisti ogni estate, è venuto alla luce un pezzo di preistoria. I resti fossili dell’elefante nano Palaeloxodon mnaidriensis, una specie estinta che popolava la Sicilia durante il Pleistocene, sono stati recentemente ritrovati nel Siracusano, in località Fontane Bianche.

Ad individuare l’affioramento di resti ossei è stato Fabio Branca, geologo dell’Università di Catania. L’osservazione diretta sul campo è poi proseguita con la partecipazione dell’archeologa Gabriella Ancona e del geologo Luigi Agnone della Soprintendenza ai Beni culturali ed ambientali di Siracusa, insieme ai professori Rosolino Cirrincione e Rosanna Sanfilippo dell’Università di Catania.
Gli studiosi sono riusciti a identificare chiaramente i reperti: si tratta di Palaeloxodon mnaidriensis, una delle due specie di elefanti nani endemiche della Sicilia.
Una scoperta che assume ancora più rilievo perché avvenuta in un’area ricchissima dal punto di vista ambientale, dove insistono riserve naturali, geositi e zone speciali di conservazione. Un vero e proprio “scrigno di geodiversità”, come lo definiscono gli esperti, che merita di essere protetto e valorizzato.

Il nuovo ritrovamento si inserisce in un contesto paleontologico ben documentato. A pochi chilometri da Fontane Bianche si trova la Grotta di Spinagallo, celebre per i fossili di un’altra specie estinta: il Palaeloxodon falconeri. Questo elefante, alto appena un metro, è uno degli esempi più estremi di nanismo insulare.
I suoi resti sono oggi custoditi presso il Museo di Paleontologia dell’Università di Catania e al Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa, veri punti di riferimento per la ricerca e la divulgazione.

Secondo quanto riportato dal Museo Gemellaro dell’Università di Palermo, l’antenato comune di queste specie era il gigantesco Palaeloxodon antiquus, noto anche come “l’elefante dalle zanne dritte”, alto fino a 4,5 metri.
Questo colosso continentale colonizzò la Sicilia in due distinte ondate migratorie:
– la prima, circa 690.000 anni fa, diede origine al minuscolo Palaeloxodon falconeri.
– la seconda, circa 200.000 anni fa, portò alla formazione del più robusto Palaeloxodon mnaidriensis.
Entrambe le specie rappresentano casi emblematici di evoluzione insulare, un processo in cui gli animali modificano taglia e caratteristiche fisiche in risposta alle condizioni ambientali uniche delle isole.

Perché gli elefanti si sono rimpiccioliti?
Lo spiega bene il Museo Gemellaro nella sua pagina ufficiale: sulle isole, in assenza di predatori e con risorse limitate, alcuni animali diventano più piccoli per risparmiare energia. È quello che accadde al Palaeloxodon falconeri, che trovò in Sicilia un ambiente con poche minacce e poche risorse: condizioni perfette per “miniaturizzarsi”.
Al contrario, Palaeloxodon mnaidriensis visse in un’epoca in cui la Sicilia ospitava altri grandi mammiferi, tra cui ippopotami, predatori e competitori alimentari. Per questo motivo, non poté ridursi eccessivamente: doveva difendersi, muoversi agilmente e nutrirsi con successo.

Come vivevano questi elefanti nani?
Grazie ad uno studio recentissimo pubblicato su Papers Antology, firmato da ricercatori delle Università di Padova e Zaragoza, e guidato da Flavia Strani della Società Paleontologica Italiana, si è potuto analizzare l’usura dentale di entrambi gli elefanti nani siciliani.

I risultati sono affascinanti:
Entrambe le specie erano pascolatrici, cioè mangiavano erbe dure e ricche di silice.
Il minuscolo Falconeri aveva una dieta più selettiva, adattata a un ambiente povero di risorse.
Il più grande Mnaidriensis (alto tra 1,8 e 2 metri) si adattò invece a praterie aperte, condivise con altri erbivori.
Ma non solo: l’analisi volumetrica dei fossili suggerisce che i maschi pesavano circa 250 kg, mentre le femmine intorno ai 150 kg. Molto più piccoli dei loro antenati, ma dotati di un cervello proporzionalmente più grande, una crescita lenta e una maggiore longevità.
Le isole come la Sicilia rappresentano dei veri e propri laboratori dell’evoluzione, dove isolamento e risorse limitate generano creature uniche. È in questi contesti che gli scienziati possono comprendere meglio come gli animali si adattano all’ambiente, anche in condizioni estreme.

Il ritrovamento di Palaeloxodon mnaidriensis a Fontane Bianche offre una nuova occasione per studiare la biodiversità del passato, ma anche per riflettere sull’importanza della conservazione dei siti naturali.
“Si tratta di uno scrigno di geodiversità che merita di essere studiato e tutelato al fine di consegnarlo alle generazioni future garantendo una fruizione ecosostenibile”, affermano gli esperti coinvolti nel progetto.
Un messaggio chiaro, che unisce scienza, tutela ambientale e memoria storica. I fossili non sono solo testimonianze del passato, ma strumenti per capire il presente e costruire un futuro più consapevole.

Oggi, i resti di Palaeloxodon mnaidriensis e Palaeloxodon falconeri sono custoditi in musei, studiati dagli scienziati e fonte di curiosità per i visitatori. Ma oltre al valore scientifico, rappresentano un simbolo identitario, una memoria tangibile del fatto che la Sicilia è da sempre una terra di biodiversità e trasformazioni eccezionali.

Fonte: www.siciliafan.it 3 ott 2025

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