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Salvatore SETTIS. Patrimoni a rìschio – Salviamo il Medioevo.

A dispetto dell’enorme ricchezza italiana, le ricerche sul periodo e la promozione di scavi importanti latitano. Una battaglia di tutela per la quale si battè a lungo Riccardo Francovich
Riccardo Francovich, il grande archeologo medievale tragicamente scomparso il 30 marzo di quest’anno, è un simbolo importante nell’archeologia italiana degli ultimi decenni, e per almeno due ragioni: la promozione dell’archeologia medievalee la battaglia per la tutela dei siti archeologici e del paesaggio circostante.
L’archeologia medievale ebbe in Italia scarsa cittadinanza, nelle università e nelle soprintendenze, a dispetto dell’enorme patrimonio di presenze medievali in Italia, che meritano di essere indagate non solo con gli strumenti della storia dell’arte, ma con le diagnostiche dell’archeologia di scavo. Forse perché sopraffatti dal peso dei monumenti e degli scavi dì antichità classica (greca, romana, etrusca…), sia l’accademia italiana che gli organismi della tutela hanno a lungo stentato ad associare le metodologie archeologiche alla conoscenza del Medio Evo.
Intanto, in altri Paesi, l’indagine archeologica conquistava terreno, e si veniva applicando anche ad età ancor più recenti (così gli scavi “sotto” New York alla ricerca della Nieuw Amsterdam che la precedette nel secolo XVII; così le ricerche di archeologia industriale).
D’importazione tedesca fu perciò da noi la Bauforschung, quasi “archeologia in verticale” puntata sull’analisi delle modalità e delle fasi costruttive dell’elevato, che studiosi come Adriano Peroni hanno portato anche in Italia a grandi risultati.
D’importazione inglese (e in parte francese) l’archeologia medievale di scavo, in siti abbandonati o in ambito urbano, che attraverso lo studiò della cultura materiale arricchisce le fonti storiche, documentarie e letterarie, di una dimensione insostituibile.
È su questo fronte che Francovich s’impegnò intensamente, col rigore di chi vuol comprendere e la passione di chi vuol convincere.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento s’impiantavano grazie a Gian Piero Bognetti i cantieri di Castelseprio e quelli di Torcello, decollavano le ricerche di archeologia longobarda, cresceva la presenza medievale nelle indagini di archeologia urbana (per esempio a Brescia e a Verona). Nelle università, l’archeologia medievale cominciò a farsi strada nello stesso periodo, collegandosi all’inizio più ai dipartimenti di storia che a quelli di altre archeologie, e principiarono insegnamenti e cattedre (Francovich ne fu incaricato a Siena dal 1975, ordinario dal 1986); solo negli anni Ottanta ispettori medievisti si aggiunsero ai classicisti e ai preistorici nelle Soprintendenze.
Nasceva intanto nel 1974 la rivista «Archeologia medievale», fondata proprio da Francovich e luogo d’incontro di tutta la miglior ricerca italiana (per esempio, e sin dal primo volume, Tiziano Marinoni).
Insomma, l’archeologia medievale si affermava e si radicava non solo come pratica, ma come disciplina. Per quanto strano possa apparire, l’archeologia medievale si formò come una disciplina di frontiera, che dovette combattere per farsi spazio non solo nelle università, ma (più ancora) nella tutela. In imprese di archeologia urbana come quelle nel centro di Firenze o di Roma, gli strati medievali continuarono ad apparire a molti come “secondari” rispetto a quelli di età classica, e perciò degni di minor tutela: mentre Francovich, come ogni studioso serio, ne rivendicava il pari valore di testimonianza, le eguali necessità di conservazione.
È su questo terreno, letteralmente e metaforicamente “sul campo”, che Francovich elaborò la sua concezione della tutela dei siti archeologici come profondamente integrata a quella dei paesaggi circostanti, e comprese, lucidamente come pochi altri, che alle imprese di scavo doveva subito accompagnarsi un alto impegno nella comunicazione dei risultati non solo ai colleghi ma ai cittadini tutti, e una nuova strategia di gestione dei siti. L’archeologo che scava e poi abbandona il sito al proprio destino non entrava nell’orizzonte etico e politico di Francovich: esempio massimo ne è la Rocca di San Silvestre in alta Maremma, dove egli riportò alla luce in oltre dieci anni di scavi esemplari un villaggio abbandonato, dal castello alla chiesa alle miniere.
Egli seppe però tradurre le sue indagini in sofisticati percorsi di visita e infine in un parco archeologico, integrato a quelli della Val di Cornia, esemplare sistema generato da alcuni comuni della provincia di Livorno e che include anche il parco archeologico di Populonia e alcuni parchi naturalistici di grande bellezza. Si congiungevano, in quell’impresa, tutte le anime di Francovich: quella dello studioso e dell’organizzatore di cultura, quella del cittadino che avverte il significato politico della tutela del paesaggio, quella del professionista che vuol promuovere la sperimentazione di nuove forme di gestione, come la Parchi Val di Cornia, dove Comuni e soprintendenze possano armoniosamente collaborare anziché innescare meccanismi conflittuali.
È triste concludere ricordando che le ultime lettere che ho ricevuto da Francovich riguardano la crisi del sistema di cui la “sua” San Silvestro fa parte. Fra febbraio e marzo, negli ultimi suoi mesi di vita, mentre il ministro Rutelli nominava me alla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali e lui come membro del comitato tecnico-scientifico per l’archeologia, Francovich mi scrisse quattro lettere sulla «distruzione del parco archeominerario di San Silvestro (Campiglia Marittima)», a causa della riapertura entro i suoi confini di un’enorme cava, le cui polveri, come ho potuto poi constatare di persona, imbiancano vergognosamente le chiome di centinaia di alberi del bosco, a un passo dai percorsi di visita.
Lo stesso comune che fu tra i promotori del parco vanifica così, scriveva Francovich, i più che 8 milioni di euro di investimenti, anche con fondi europei; la coltivazione della cava, senza nemmeno un progetto di ripristino delle aree già sfruttate, è prevista almeno fino al 2026.
Le cave di Monte Calvi e di Monte Valerio, sottolineava Francovich, distruggono testimonianze minerarie di rara importanza archeologica, comportano la chiusura di percorsi di visita già aperti al pubblico, e impattano sul paesaggio in modo irreversibile, violando le direttive europee in barba ai fondi europei già spesi. Insomma, disse Francovich in un’intervista alla Nazione del 6 febbraio, «la cava uccide il Parco: lo stesso Comune che, con il sistema dei parchi, ha saputo concepire dal basso un importante progetto di tutela e valorizzazione del patrimonio archeominerario e naturalistico, oggi non sembra in condizione di porre argini all’aggressione speculativa delle cave che distruggono paesaggio e testimonianze storiche».
E in un’altra lettera: «se per realizzare imprese significative in scala territoriale, i governi locali sono determinanti, per conservarli è assolutamente necessario disporre di strutture di controllo lontane dagli affari locali e capaci di un giudizio terzo e inappellabile (quello che io chiamo controllo forte dello Stato), Oggi abbiamo comuni in fase di rapido declino progettuale e gestionale (anche in Toscana) e strutture di tutela disattente alla costruzione delle cartografie regionali e sub-regionali e ai processi di trasformazione paesaggistici. Per questo mi ritrovo fra l’altro a battagliare anche per Fiesole, dove il comune, con l’avvallo delle sovrintendenze, sta trasformando in aree fabbricabili l’immenso deposito archeologico del centro interno alle mura».
Fu proprio a Fiesole che, durante una solitària ispezione ai luoghi, Riccardo Francovich mori cadendo dal ciglio del monte. Ricordarlo senza impegnarci a proseguire la sua battaglia sarebbe ipocrita e vano.


Fonte: Il Sole – 24 Ore 25/11/2007
Autore: Salvatore Settis
Cronologia: Arch. Medievale

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