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ROMA. Forma Urbis, il tesoro abbandonato: la pianta di Roma giace in un magazzino.

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Roma perde la sua Forma e la sua memoria. Un’antichità tra le più importanti e prestigiose, un «unicum» che tramanda e descrive minuziosamente come era la città 18 secoli fa, verso l’anno 200, giace nascosta, invisibile, per decenni riposta in un magazzino: in un’epoca in cui tanto si parla di come «valorizzare i beni culturali». E’ la Forma Urbis, una pianta d’età severiana, è davvero importante se Rodolfo Lanciani, uno dei maggiori archeologi dell’Ottocento, ne esegue una copia in gesso. Una copia ormai anch’essa celata in un deposito (è stata smontata dal Campidoglio, dove si trovava, quando vi fu ricoverato il Marc’Aurelio). E in California, l’Università di Stanford ha digitalizzato tutti i 1.186 frammenti esistenti della Forma Urbis originale.
Sono appena il 15 per cento della mappa severiana; ma anche se «conservata solo in minima parte», essa «costituisce il documento più importante per la conoscenza della topografia di Roma antica», spiega l’archeologo Filippo Coarelli. Era ai Fori, nel Tempio della Pace; su un muro che c’è ancora, vicino alla Basilica dei Santi Cosma e Damiano: se ne possono vedere le perforazioni delle grappe per fissarla. Ma, dopo tanti traslochi e nascondimenti, lo straordinario reperto è come di nuovo sepolto: sta al Museo della Civiltà Romana all’Eur dal 1998, oggi è accessibile solo agli studiosi.
La Forma Urbis era alta 13 metri e lunga 18; composta da 150 lastre di marmo, non tutte eguali, disposte su 11 file. La città vi era rappresentata in scala 1 a 240: proporzione analoga a numerose tra le migliori mappe di oggi; erano ben 235 metri quadrati. Ne mostrava tanti dettagli: i contorni delle costruzioni pubbliche e private (serviva per scopi amministrativi, e forse nella medesima sala c’era la pianta catastale dell’Urbe, su papiro per poterla aggiornare), il tragitto del Tevere, le piante del Colosseo, del teatro di Pompeo e del Circo Massimo, di molte case e casette, delle Terme, dei negozi e degli «horrea», i magazzini di grano e di altre derrate alimentari.
E’ stata incisa tra l’anno 203 e il 211: riporta anche il Septizodium, una facciata e un ninfeo a più piani appunto del 203, uno splendido edificio che si conservava ancora nel Cinquecento, abbattuto per ordine di Papa Sisto V; e una sua dicitura evoca Settimio Severo e il fratello Aurelio Antonino (Caracalla) come co-imperatori, il che avvenne dal 198 al 211. Forse è di prima del 209: infatti, un’altra iscrizione non menziona il fratello minore di Settimio, Geta, che allora è insignito del titolo di Augustus (Caracalla lo farà uccidere nel 211, appena morto Settimio Severo, per non dividere il ruolo di imperatore).
La Forma Urbis, o quel che ne resta, è stata scoperta a più riprese dal 1562. Il primo a (ri)vederla fu un tal Torquato Conti, mentre scavava pietre nell’orto dietro la Chiesa. Il vecchio tempio romano, creato da Vespasiano con le spoglie della guerra giudea, era stato donato da Teodorico a papa Felice IV nel 527; e dai tempi di Costantino, era la sala d’udienze (presunta) del prefetto della città, dice Richard Krautheimer; divenuto chiesa, fino al 1632 ha un magnifico rivestimento in marmi policromi: il papa aggiunge soltanto gli splendidi mosaici che ancora esistono. Quando scopre i primi frammenti di marmi incisi, Torquato Conti li regala a Alessandro Farnese, di cui era parente.
Ma altri pezzi si ritrovano successivamente, e per fortuna, se ne fanno i rilievi (esistono ancora in Vaticano): perché molto viene disperso. Gli stessi Farnese, che pure li avevano esposti nel loro palazzo, ne utilizzano per costruire il «Giardino segreto» sul Tevere: se ne recupererà soltanto una parte; 192 frammenti nel 1888, 451 l’anno dopo. In vari scavi e vari periodi, ne sono rinvenuti altri, qua e là. Nel 1999, 53 durante gli scavi ai Fori; 10 anni fa, uno a via delle Botteghe Oscure, costruendo un sottopassaggio nell’area della Crypta Balbi. Ma i rilievi d’epoca e tanti disegni rinascimentali permettono di colmare parecchie lacune.
La prima esposizione della Forma avviene nel 1742: 20 quadri, sullo scalone del Museo Capitolino. Nel tempo, uno dei maggiori tentativi di ricostruire questo «puzzle» si deve a Lanciani. Applica i frammenti originali, che poi sostituisce con calchi, in Campidoglio: a una parete di Palazzo dei Conservatori. (Poi, si sa, ripete e attualizza il lavoro dei tempi severiani: operando da solo, in scala 1 a 1000, 46 tavole a colori apparse dal 1893 al 1901, crea la sua «Forma Urbis Romae», stavolta non incisa nel marmo, ma su carta, per distinguere i monumenti imperiali da quelli romani e medievali, dagli edifici moderni).
Ma la sua copia in gesso è finita anch’essa in deposito. E l’originale, dai tempi dei Musei Capitolini, ha avuto mille peripezie che, in pratica, lo hanno reso sempre invisibile. Nel 1924, in Campidoglio, è sostituito da una copia. Cinque anni dopo, emigra nel nuovo nell’Antiquarium comunale, al Celio: che però è chiuso nel ’39, perché lesionato dagli scavi per la prima metropolitana. Torna in Campidoglio: ma a Palazzo Caffarelli, in un deposito.
Quando ne iniziano i restauri, nel 1955, va in un altro magazzino, a Palazzo Braschi. E da quasi 15 anni, all’Eur. «Il progetto è di esporre la Forma Urbis nel Museo della Città, se e quando si farà», dice sconsolata Anna Mura Sommella, l’archeologa che se ne è presa cura per 43 anni, fino al 2007. Però, senza riuscire, nemmeno lei, a resuscitarla.

Autore: Fabio Isman

Fonte: IlMessaggero.it, 31 Agosto 2011

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