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Barbara CARMIGNOLA: Le catacombe napoletane. Decorazioni ed oscillazioni iconografiche.

Nelle viscere della terra sono sepolti tesori inestimabili, mondi sommersi di cui spesso si ignora l’esistenza: gli affreschi che decorano gli ambienti nobili delle catacombe dell’area napoletana (che si svilupparono principalmente nella zona dei Colli Aminei per la presenza del tufo giallo, ottimo per scavare ampi passaggi sotterranei senza il pericolo di frane e smottamenti), fanno parte di questo passato che si svolge lungo stretti cunicoli e che ci parla del cristianesimo delle origini e dei suoi modi rappresentativi.

Ogni tomba, anche la più povera, posta in quest’intricata tessitura di anguste gallerie, presenta un segno di riconoscimento: una lucerna, una moneta, il fondo di un bicchiere, un monile, un giocattolo, altre volte un nome o un semplice monogramma.
Le tombe dei ricchi esponenti della nobiltà, della classe patrizia, presentano invece decorazioni, realizzate ad affresco o mediante la tecnica musiva, che oscillano tra il II ed il X sec. d.C.
In presenza di decorazioni a fresco è frequente imbatterci in fregi color ocra stagliati su fondi bianchi: la volontà di operare un netto contrasto cromatico è probabilmente da ricondurre alla necessità di adottare delle modalità pittoriche che permettessero la visibilità delle opere anche in ambienti in cui la luce indubbiamente scarseggiava.
In questi dipinti murali, per lo più realizzati per mezzo della cosiddetta “tecnica compendiaria”, da alcuni impropriamente definita impressionistica, i pittori si mostrano ancora sensibilmente legati al naturalismo tipico dello stile classico che stava giungendo al suo inesorabile tramonto ma i cui bagliori non si erano ancora del tutto spenti. Con i pochi tratti delineati per mezzo del pennello gli artisti che realizzarono queste opere cercarono di animarle suggerendo l’idea del movimento: proprio in questa preoccupazione si ravvisa il netto scarto che separa l’arte di questo primo cristianesimo da quelle tendenze dell’arte medievale improntate ad un’immobile ieraticità.

Il 313 d.C. era l’anno della promulgazione dell’editto con il quale Costantino concedeva libertà di culto ai cristiani: è interessante notare come questo evento di tipo storico-sociale abbia influito sulle tendenze artistiche, sottolineando nelle catacombe napoletane il sensibile trapasso da un’arte maggiormente allegorica e simbolica ad un’arte in maggior misura narrativa: ai temi puramente decorativi, alle scene legate alla rappresentazione di mestieri artigianali, di fiori, frutti ed animali simbolici come, per esempio, quelli che campeggiano nelle catacombe di S. Gaudioso o il pavone delle catacombe di S. Gennaro (IV sec. d.C.), si sostituiscono nell’anno dell’entrata in vigore del provvedimento imperiale, episodi espressamente connessi con l’Antico ed il Nuovo Testamento, che se prima erano comunque presenti erano però illustrati in modo volutamente criptico ed ambiguo. A questi temi tratti dalla Sacra Scrittura se ne aggiungono altri completamente nuovi che si ispirano alla passione di Cristo e alla sua resurrezione, alle morti dei cristiani martirizzati, alla Vergine, ai santi e agli apostoli. La novità della scelta dei soggetti delle figurazioni si esprime nell’oscillazione iconografica con cui i protagonisti delle scene vengono rappresentati.
La difficoltà di fissare un’iconografia univoca per un dato personaggio delle storie evangeliche, porta i cristiani ad attingere a piene mani al repertorio iconografico dell’età classica convertendo vecchie iconografie a nuovi significati: la vite, simbolo dell’ebbrezza e dell’invasamento bacchico diviene simbolo eucaristico del sangue vitale e salvifico versato dal Redentore, ed è con questo significato che la incontriamo in una scena del IV secolo che si snoda sulle pareti delle catacombe di S. Gennaro; l’agnello che accompagnava Orfeo nelle antiche scene mitologiche connesse a questo mito si carica di una nuova valenza trasformandosi nel simbolo dell’Agnus Dei e nella figura del Buon Pastore che decora un cubicolo del piano inferiore delle catacombe di S. Gennaro; lo stesso pavone, che S. Agostino aveva affermato avere carne incorruttibile e che era stato scelto in virtù di ciò a rappresentare l’incorruttibilità del corpo di Cristo, era anticamente uno dei simboli della dea Giunone; anche il delfino, frequentemente prescelto nelle pitture più antiche dei cunicoli napoletani ad indicare il Dio fatto uomo, poi trasformatosi nel più conosciuto simbolo del pesce, è una iconografia dal retaggio arcaico che affonda le proprie radici nell’antichità, designato sin dai tempi di Plutarco a rappresentare la fedeltà.
Se a livello simbolico il cristianesimo si volge ad elementi allegorici già adoperati, chiari e comprensibili a tutti poiché facenti parte del bagaglio culturale di ciascun individuo, la medesima cosa accade quando i cristiani avvertono l’esigenza di raffigurare il volto sacro del Salvatore, di Maria e dei santi.
Non dobbiamo dimenticare che se oggi siamo abituati a veder rappresentati questi protagonisti del mistero cristiano secondo i tratti fissati dal peso di una millenaria tradizione, ciò è possibile solo in virtù del fatto che questa è stata codificata nel passaggio di anni e secoli. Nelle catacombe dell’area romana, troviamo il Cristo ancora imberbe colto nell’atto della traditio legis che riprende chiaramente l’iconografia pagana legata ad Helios, in una trasposizione di significati che associa il Sole alla vita che il Figlio di Dio ha donato all’uomo; gli angeli, seguendo in maniera letterale i passi biblici, sono ancora rappresentati come uomini, senza ali, secondo una tipologia di tipo paleocristiano.
Tornando più strettamente ai mosaici napoletani possiamo asserire che in quest’area, se molti sono i dipinti di santi presenti nelle catacombe, lo stesso non si può dire delle figure di Cristo e della Madonna, che per lo più s’incontrano in pitture tarde e singolari probabilmente per la maggior consistenza di un alone di sacro rispetto devozionale che rendeva maggiormente problematico rappresentare figure divine con sembianze umane.
La figura di Cristo, già barbuto, è presente nelle catacombe di S. Gaudioso e S. Nostriano; una scena di crocifissione piuttosto insolita, con Cristo nudo sulla croce, con ai lati il Sole e la Luna, ai piedi i due dolenti, a destra un gruppo di astanti tra cui si intravede la scritta “Ecclesia”, risale al VII secolo ed è dipinta nelle catacombe di S. Gennaro; più rare sono le immagini di Maria: la più antica scena della Vergine con il Bambino in braccio dell’arte paleocristiana di Napoli, risale al V secolo e si conserva nel succorpo della catacomba di S. Gaudioso.
Considerata la bellezza di queste decorazioni, le si può, in senso storico più che artistico, interpretare come una fulgida testimonianza della floridezza economica di cui la Chiesa del capoluogo campano godeva nella tarda antichità.
La raffinatezza di quest’arte deve essere riconnessa alle maestranze campane che operarono anche nell’area di Pompei ed Ercolano, alla tradizione greca di cui la città partenopea era erede, alle ascendenze bizantine che non poterono non concorrere ad amplificare il naturalismo delle forme, ed infine, ma non ultimo, le peculiarità intrinseche a quest’arte vanno ricercate nell’influsso che su queste decorazioni ebbero i rapporti con l’Africa, conquistata nel V secolo dai vandali di Genserico, rapporti stabiliti attraverso il flusso migratorio di esponenti del cristianesimo che, fuggiti da queste terre, si rifugiarono nella città alle falde del Vesuvio.
Le immagini, che avevano un compito didascalico a comporre una sorta di biblia pauperum, erano realizzate con il fine di alimentare la fede dei visitatori delle tombe, riproponendo loro l’insegnamento ascoltato da questi durante la preparazione cristiana: tra queste scene didascaliche occorre menzionare il ciclo delle pitture collocate nel vestibolo superiore delle catacombe di S. Gennaro che narrano la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, David che lotta con Golia e la Costruzione della Torre, che rappresenta la Chiesa, secondo il racconto che Erma ne dà nel suo libro, Il Pastore. Queste celebri decorazioni, che hanno come fine quello di mettere in risalto il peccato e la necessità di redenzione, sono state eseguite tra il 180 e il 220 d.C. e sono considerate da molti come la prima prova della diffusione del cristianesimo a Napoli.

Autore: Barbara Carmignola
Cronologia: Arch. Medievale

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