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Nicole POT *. L’archeologia per capire il presente.

Nella sua versione tradizionale, l’archeologia è una disciplina mitica, resa popolare dai pionieri del XIX e dell’inizio del XX secolo e da figure glamour di avventurieri, come Harrison Ford e Lara Croft…
Ma, nella sua versione moderna, detta «preventiva», molto spesso non è accettata dal mondo economico e da molti responsabili, anzi, a volte suscita opposizioni di una virulenza impensabile nei confronti di qualsiasi altra disciplina scientifica. Se ne è avuta una prova nei dibattiti parlamentari del 2002 e 2003, quando si sono sentiti alcuni deputati di squisita sensibilità mettere in discussione il principio stesso dell’archeologia preventiva, anche nel suo aspetto di servizio pubblico, stigmatizzando il lavoro degli archeologi in quanto non troverebbero che «resti di vasellame», o secondo altri «vecchie lattine di Coca cola», «esasperando» i loro concittadini (1).
Un’animosità che non è nuova: lo sviluppo dell’archeologia preventiva è stato scandito, dalla metà degli anni ’70, da ripetute crisi. E se la creazione dell’Institut national de recherches archéologiques préventives (Istituto nazionale per le ricerche archeologiche preventive), nel 2001, ha consolidato il successo del lavoro militante degli archeologi e garantito la legittimità della loro azione, i problemi di finanziamento, ricorrenti da allora, dimostrano con chiarezza che la sua accettazione non è affatto scontata.
Di fatto, poiché la maggior parte dei siti conosciuti grazie ai testi storici è scavata o in fase di scavo, oggi l’azione degli archeologi è solo preliminare alla costruzione di strade, ferrovie, parcheggi, lottizzazioni… Vengono esumate le vestigia sepolte e, prima che siano distrutte dai bulldozer, si registrano tutte le informazioni che servono a costituire ciò che lo studioso di preistoria André Leroi-Gourhan chiama gli «archivi del suolo». Per i pianificatori del territorio, i tempi dell’archeologia costituiscono evidentemente un intralcio all’efficienza delle loro decisioni. Molti scavi vengono effettuati su grandi superfici, che possono raggiungere anche i mille ettari nel caso della costruzione di un’autostrada o di una linea ad alta velocità; implicano dunque il ricorso a sondaggi sistematici, a mezzi tecnici complessi e relativamente costosi, finanziati dai costruttori. Da qui l’ostilità di alcuni di loro, talvolta sostenuta da parlamentari di ogni tendenza. Eppure, in definitiva, in Francia gli interventi archeologici non rappresentano che lo 0,1% del costo totale della costruzione e riguardano solo il 10% delle superfici progettate. Due euro l’anno per ogni francese: è questo il prezzo per non cancellare il passato con un colpo di benna.
Ma l’archeologia preventiva soffre di un’altra forma d’incomprensione, inerente alla sua stessa natura. Non porta vagoni di tesori con cui arricchire le collezioni dei musei di belle arti, allestire mostre prestigiose o sviluppare il turismo grazie all’apertura di siti eccezionali.
Lontana dall’archeologia classica, greca, romana, egizia, maya… non civetta con le agenzie di viaggi, che vendono mitiche fughe verso luoghi ricchi di vestigia spettacolari.
Al contrario, sopprime, fisicamente, l’essenziale di ciò che ha scoperto.
Scavare, vuol dire quasi sempre distruggere. Infatti, al di là degli oggetti estratti dal suolo, conservati e studiati con scrupolo, la tecnica stessa dello scavo distrugge di per sé in quanto procede ad un esame dei vari strati dell’insediamento umano. Raggiungere i livelli inferiori implica, preliminarmente, una parziale demolizione, se non altro dei livelli più recenti. L’archeologia legge il nostro passato nella stratigrafia del suolo.
Il suo obiettivo è quello di accumulare materiali di ogni tipo: microscopici resti di vegetali, pezzi di attrezzi, cocci, ossa, detriti vari, semplici tracce di fuochi o anche buchi di pali che, come in un negativo, evocano il tipo di costruzioni scomparse e la loro organizzazione spaziale.
È un lavoro meticoloso che non acquista senso se non dopo un lungo periodo di ricerca. Solo l’analisi degli elementi studiati permetterà di ricostituire come vivevano le società scomparse, arricchirà la conoscenza dell’evoluzione delle tecniche, del modificarsi dei paesaggi, dell’ambiente… e spesso ne rinnoverà profondamente l’interpretazione.
Tuttavia, questo tipo di conoscenza, che appartiene al registro delle scienze umane e non a quello delle belle arti, raramente si esprimerà in modo spettacolare. E da qui l’incomprensione…
Eppure, dissotterrare un tale sapere riguarda in primis i costruttori, da un lato perché sono loro che lo rendono possibile, dall’altro, e soprattutto, perché studia la storia della loro attività, l’assetto del territorio. Finanziando l’archeologia preventiva, essi permettono un’inedita forma di sviluppo sostenibile: preservare per le generazioni future la conoscenza della storia comune. Senza questa ricerca, infatti, molti aspetti essenziali del passato andrebbero definitivamente persi.
Del resto sono sempre più numerosi i pianificatori che, con consapevolezza, scelgono di inserire questa voce specifica nella propria politica di comunicazione, rendendosi conto che, a meno di non voler far sprofondare la collettività in un’amnesia, in questo caso irreversibile, essa non è meno importante della salvaguardia dell’ambiente.
Attualità delle scoperte Risalendo i millenni ben oltre i cosiddetti periodi «storici», grazie alle più moderne tecniche d’investigazione e di datazione, si chiariscono in modo definitivo e originale molti grandi dibattiti attorno a società di cui l’archeologia ci consegna un’analisi rinnovata (2). Recenti scoperte ci danno, in particolare, informazioni inedite sul nostro ambiente naturale, il riscaldamento climatico, l’esaurirsi delle risorse, l’esplosione demografica, la sopravvivenza o il crollo di antiche società in funzione delle loro relazioni con l’ambiente.
Gli scavi per l’aeroporto di Vatry, vicino a Reims, ad esempio, hanno mostrato che i territori conosciuti come Champagne «arida» sono stati abbandonati a più riprese, all’epoca dei Galli prima e dei Romani poi. Queste scoperte ci danno dunque delle indicazioni per gestire il presente e pensare all’avvenire.
La rinnovata conoscenza delle occupazioni umane su uno stesso territorio nel corso dei millenni costituisce un altro esempio dell’apporto dell’archeologia a questioni attuali. Disegnando la storia delle migrazioni successive, essa offre elementi di riflessione in grado di aiutare le popolazioni, nate da recenti movimenti migratori o al contrario da migrazioni antiche e spesso dimenticate, a tessere un legame sociale associativo.
Scoprire e appropriarsi di una storia molto lontana, senza necessari agganci con la popolazione attuale – come nel caso della città nuove, ad esempio – può creare all’interno di una comunità in cui si vive vicini senza coabitare realmente, e che spesso ha perso di vista le origini della sua storia, un senso di appartenenza ad una collettività, consapevolezza che è indispensabile ai singoli: un passato lontano, ma comune, aiuta a ricomporre il senso d’identità.
Più in generale, la conoscenza che nasce dalla ricerca archeologica può evitare alle singole comunità la duplice sofferenza di non avere un passato e di avere un futuro privo di memoria collettiva. In un mondo in cui il legame con l’ambiente più vicino va di pari passo con una vertiginosa apertura alla globalità del mondo, l’archeologia contribuisce al radicamento di un’identità, pur relativizzandola, grazie al fatto di svelare pratiche culturali che permettono di vederla in prospettiva.
La Francia, che solo nel 2001, quindi nove anni dopo la firma della convenzione di Malta (3) da parte di tutti i paesi europei, ha emanato una legge sul ruolo dell’archeologia preventiva, registra ancora un grave ritardo rispetto alla condivisione delle conoscenze, alla diffusione dei risultati delle ricerche e al loro apporto alla riflessione sulla nostra società contemporanea e i suoi valori. Su tutti questi temi, le reti televisive pubbliche dovrebbero essere più presenti, e in fretta, parallelamente all’evidente aumento di interesse da parte della popolazione.
E, al di là della Francia, i poteri pubblici potrebbero attivarsi affinché, sotto l’egida dell’Unesco, anche gli altri continenti attuino il riconoscimento legale dell’archeologia preventiva. Il problema si pone con urgenza soprattutto nei paesi in rapido sviluppo economico (Cina, India…), dove il ritmo dell’intervento sul territorio è assai poco rispettoso della salvaguardia di un passato che appartiene all’intera umanità.

Note:
* Direttrice generale dell’Institut national de recherches archéologiques préventives (Inrap).

(1) Cfr. Dibattiti parlamentari dell’autunno 2002 e rapporto informativo n. 875 del maggio 2003, della commissione di valutazione e controllo dell’Assemblea nazionale francese (audizioni).

(2) Un incontro sul tema «L’avenir du passé. Modernité de l’archéologie», si è tenuto a Parigi, presso il Centro Georges-Pompidou, il 23 e 24 novembre.

(3) La convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico, firmata a Malta il 16 gennaio 1992 da tutti i paesi europei (e non solo da quelli dell’Unione europea), definisce il principio dell’archeologia preventiva, secondo cui lo studio per la salvaguardia dei siti deve essere condotto molto prima dei lavori sul territorio. È stata ratificata dalla Francia nel 1994.
(Traduzione di G. P.) 


Fonte: Le Monde Diplomatique 22/01/2007
Autore: Nicole Pot

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