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BENI ARTISTICI, NEW ECONOMY TUTTA ITALIANA.

La valorizzazione dei monumenti è l’unica vera chance del Belpaese: purché agiamo prima che il loro destino venga deciso dall’emergente economia asiatica.

Chi deciderà il destino dei nostri beni culturali, che sono – com’è noto – ben la metà del patrimonio artistico mondiale? “La Cina”, parola di Massimo Ponzellini, finanziere e amministratore delegato di Patrimonio dello Stato Spa.

Il paradosso (ma non troppo) deve far riflettere visto che viene da un pulpito autorevole, ovvero dall’uomo al quale il governo ha affidato la tanto discussa “vendita” o “privatizzazione” degli italici tesori. Secondo Ponzellini, infatti, il declino postindustriale dell’Italia a favore dell’Asia è tale e così irreversibile che “bisognerà per forza e presto inventare qualcos’altro, una forma nuova di economia, che sia la vera new economy del futuro”. E questa new enonomy italiana sarà, appunto, la gestione della cultura. Sono in molti a pensarla come Ponzellini, e lo hanno esplicitamente detto al convegno organizzato a Cagliari dalla Borsa della Cultura e del Turismo Sostenibile con la collaborazione di Adarte, Itinerarte e Sevenpromotion.

Che la valorizzazione di monumenti e musei sia l’unica vera chance del Belpaese non è però solo un pallino del ministro Urbani e dei liberisti di varia matrice. Ma è anche l’opinione del popolo italiano, stando a un’indagine presentata da Doxa e dall’associazione Mecenate 90, che “fotografa” una svolta epocale nel rapporto fra cittadino e patrimonio artistico. Dati che fanno sensazione, e che sono la vera notizia scaturita dall’assise: quella di una domanda di cultura crescente, diffusa e senza precedenti.

Innanzitutto, il 71% dei connazionali si dice “completamente d’accordo” sul fatto che “i monumenti sono un patrimonio prezioso, e la loro conservazione favorisce la crescita del Paese”: un dato clamoroso che fa svaporare il cliché della volgarità degli interessi di massa, degli italiani tutti pallone e veline. Estesa appare anche la coscienza del patrimonio culturale come valore cui affidare la propria identità collettiva: alla domanda “Secondo lei, nel suo comune ci sono monumenti artistici importanti?” ben il 58% risponde di sì. Non solo, ma piccoli mecenati crescono. Il 56% del campione “si sente coinvolto in prima persona nella conservazione del patrimonio artistico” e tanti sono quelli che metterebbero addirittura mano alle tasche: alla perentoria interrogazione “Lei personalmente sarebbe favorevole a sostenere una donazione in denaro per il restauro del patrimonio artistico italiano?” il 49% si dichiara favorevole. Non male, in un momento conclamato di incertezza sociale, di inflazione che riprende a correre, di buste paga alleggerite. Ciliegina sulla torta, la conferma del fenomeno mostre, non più riducibile a moda estiva: nell’ultimo decennio il pubblico di musei ed esposizioni (ma anche di cinema e teatri) è cresciuto del 20%. Fin qui la teoria.

Nella pratica restano le incertezze e le polemiche (che il convegno non ha sopito, anzi) intorno al Codice Urbani, che dovrebbe trasformare i sogni in realtà aprendo all’iniziativa privata. Secondo il sottosegretario ai Beni culturali Nicola Bono non c’è il rischio di uno scippo di beni pubblici: “Musei, pinacoteche, siti archeologici restano incedibili per definizione. Ma se la proprietà del bene permane in mano pubblica, la gestione potrà benissimo essere concessa ai privati. Nulla impedisce invece di vendere le ex caserme, le ex carceri, gli ex conventi, se non sottoposti a vincoli. Chi deciderà sulla cedibilità di questi beni? Le Soprintendenze”.

Le Soprintendenze, però, non la vedono così facile e, in gran parte dei casi, rispediscono l’invito al mittente: per Carla Di Francesco, soprintendente della Lombardia (fieramente oppostasi alla vendita dello storico carcere milanese di San Vittore) “alle Soprintendenze mancano le risorse umane e tecniche necessarie per fare verifiche serie nei 120 giorni concessi dalla legge”. Ma il governo vuole far cassa, ed entro gennaio 2004 il Codice Urbani sarà operativo, promette Bono.

Vedremo.

Detassazione, il trucco che all’estero funziona.

Mecenatismo, sponsorizzazioni, interventi privati.

Ampio è il vocabolario del libro dei sogni. Ma la realtà, almeno in Italia, è molto più prosaica: la realtà di una normativa fiscale complessa e punitiva per chiunque miri a una gestione privatistica, e quindi remunerativa, dei beni culturali. Fra le molte ascoltate a Cagliari, del tutto nuova è la ricetta proposta da Stefano Borghi, economista della Livolsi & Partners: quella del trust, “un istituto di diritto anglosassone che può essere introdotto anche da noi in base alla Convenzione dell’Aja del 1985”.

Secondo Borghi la formula del trust consentirebbe di superare le difficoltà delle attuali fondazioni, che devono essere paternalisticamente approvate dall’alto, cioè dallo Stato. Il trust, invece, permette “la trascrivibilità dei trasferimenti mobiliari presso le conservatorie dei beni ai registri immobiliari, non soggetta ad imposta”. Insomma non una semplice detrazione all’italiana ma una vera e propria detassazione all’americana.

Una soluzione che ammalia molti anche in virtù dei numeri, se è vero che nel 2002 negli Usa la percentuale delle erogazioni mecenatistiche per la cultura, scaricabili al 100% dalle tasse, è stata pari all’1% del Pil. Un’enormità, considerando l’enormità del Pil americano. Un modello Usa adottato anche dalla giacobina Francia. Ma non c’è solo l’America. Borghi ha citato a esempio anche la Spagna, “con l’esperienza dei “Paradores” gestita al 100% dallo Stato, che ha trasformato antichi palazzi, dimore storiche e conventi in hotel e centri congressi. Una valorizzazione privatistica ma intelligente”.

Una lezione viene anche dall’Inghilterra, dove lo strumento del tax shelter ha avuto eccellenti effetti sullo sviluppo dell’industria cinematografica: “È una defiscalizzazione che favorisce il reinvestimento degli utili prodotti all’interno del settore ma anche di capitali provenienti da privati”.

E la Sardegna è già passata ai fatti.

In Italia, fortunatamente, non abbiamo solo parole ma anche fatti.

Esemplare l’esperienza proprio della Sardegna, regione peraltro non priva di problemi, dove l’attività privata di studio e sensibilizzazione da parte della Borsa dei Beni Culturali e del Turismo Sostenibile, unita all’attivismo dell’assessorato regionale del Turismo, ha creato una sorta di “cabina di regia per le politiche di sviluppo del turismo culturale”, secondo l’espressione usata dal giovane assessore Roberto Frongia, il quale cita come suo modello la scozzese Glasgow, “… città che era in crisi ma è rinata seguendo obiettivi strategici”. Un’azione intelligentemente mirata anche alla valorizzazione della Sardegna interna, quasi sconosciuta ai circuiti turistici di massa, e al recupero degli itinerari religiosi “con il restauro di 21 cattedrali sarde, effettuato grazie ai fondi comunitari”.

C’è poi in programma il “recupero turistico delle aree minerarie dimesse del Sulcis-Inglesiente, strutture storiche e bellissime”. Questo “connubio tra cultura e turismo” è evidente nella collaborazione tra Frongia e la Borsa dei beni culturali, che ha portato all’identificazione di alcune priorità per la tutela del patrimonio sardo: le stupende chiese di Orosei e Orotelli, il castello di Barumele, il pozzo nuragico di Selargius e altri monumenti bisognosi di intervento, alcuni dei quali sono già stati “adottati” da uno sponsor.
Fonte: AV Avvenire 07/11/03
Autore: Domenico Montalto

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