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TORINO. Quel mosaico nella dimora signorile di Augusta taurinorum.

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Tra i molti saggi di scavo a cui ho preso parte negli anni in cui facevo l’archeologa militante, quello dell’isolato di San Giacomo in via Bonelli, a Torino, ha lasciato un ricordo particolarmente netto.
Era il 1993, lavoravo per una cooperativa di ricerca al fianco della Soprintendenza piemontese ed eravamo intenti da diversi mesi a scavare nelle aree di quello che oggi chiamiamo il quadrilatero romano — i suoi limiti coincidono grosso modo con quelli della città romana, appunto — perché l’amministrazione dell’allora sindaco Valentino Castellani aveva avviato progetti di grande riqualificazione urbanistica. Erano previsti scavi in profondità negli isolati compresi tra piazza Emanuele Filiberto, via Santa Chiara, via Bonelli, via Sant’Agostino. Prima di gettare le fondamenta di nuovi edifici occorreva verificare l’esistenza di resti preesistenti, magari significativi, e valutarne l’importanza documentale.
Serve una certa fantasia per immaginare oggi come si presentassero allora quelle vie, prima della grande trasformazione che rendendole luogo del divertimento ha cancellato definitivamente l’aria dickensiana che le segnava: case di ballatoio addossate l’una all’altra in un’area che era stata approdo della prima grande migrazione interna, negli anni Sessanta.
La zona era da sempre considerata sensibile da un punto di vista archeologico, sapevamo (e speravamo) che lì, nel saggio che si cominciava a scavare nel cortile di via Bonelli 11, avremmo trovato qualcosa. Del resto i dati archeologici testimoniavano già l’esistenza, nei primi secoli dell’impero, di un centro urbano vivace in cui si svolgevano alcune attività artigianali, di una città caratterizzata da una possente cinta muraria, con case che dal I-II secolo d.C. si erano arricchite di comodità e di decorazioni dipinte.
torinoE non fummo delusi.
È proprio da via Bonelli infatti che proviene quello che è attualmente considerato il più spettacolare tra i mosaici fin qui rinvenuti, ornamento pavimentale di una dimora signorile di età romana in Augusta Taurinorum.
Si trattava infatti (ma questo sarebbe stato chiaro alla fine del lungo scavo) dell’abitazione più grande e meglio conservata nota a Torino fino a quel momento, ubicata in un’insula quasi a ridosso del tratto settentrionale delle mura.
Una casa con più di dieci stanze distribuite lungo un corridoio d’ingresso affiancato da un vano, forse porticato, dotata di attrezzature per raccogliere l’acqua piovana al centro di un cortile interno e di altre comodità tipiche delle classi più agiate. Una domus che il ritrovamento più importante avrebbe permesso poi di ribattezzare la «casa del delfino», dall’emblèmata posto al centro di uno dei pavimenti trovati all’interno.
Il ritrovamento, eccezionale, oggi è visibile al Museo di Antichità di Torino dove la collocazione scenografica ne esalta la bellezza: il tappeto di tessere che copre l’intero pavimento della stanza (il mosaico fu poi asportato dal suo alloggiamento di malta e sassi) è decorato da un motivo geometrico di stelle a otto losanghe con quadrati e rettangoli riempiti da nodi di Salomone. Le stelle sono disposte in modo da ricavare uno spazio centrale per due pannelli figurati: il pannello superiore, più piccolo, è quasi completamente scomparso. Quello inferiore ha nel disco centrale la raffigurazione policroma di un amorino alato che cavalca un delfino, tenendo nella mano destra un’asta.
L’intera composizione è inquadrata da una fascia nera con una cornice di rombi che decora soltanto il lato breve ed una piccola parte di quello lungo, forse perché la banda non decorata doveva essere nascosta dai triclini che servivano per il banchetto (Museo Torino).
Lo scavo durò diversi mesi, l’area indagata nelle diverse fasi che, come anche nelle altre domus di cui si è trovata traccia, testimoniano un lento abbandono.
Quel che restava della casa non c’è più. I suoi resti sono stati documentati, fotografati, raccontati (Quaderni della Soprintendenza archeologica, 1995 e seguenti) e poi cancellati dal progetto di riqualificazione successivo.
L’amorino, quello c’è. Cavalca instancabilmente il suo delfino, delicato e perfetto come dovette immaginarlo e realizzarlo, nel II secolo d.C., la mano esperta di un mosaicista, lontano da Roma

Autore: Carla Piro Mander

Fonte: torino.corriere.it 9 mag 2024

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