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TORINO. Gli scheletri nell´armadio di casa Lombroso.

I nostri antenati abitano in cantina, sistemati in eleganti armadi ottocenteschi, un cranio dopo l´altro come vasetti di marmellata. Millecinquecento teschi, che poi è un modo concreto per vedere e toccare quello che siamo stati e quello che saremo. Ci sono scheletri appesi ai ganci come abiti. E cassettiere piene di falangi o di femori, e una pantera in scatola, smontata e bollita, ma anche un cervo, e una tigre, e una pecora che pare un puzzle.
Benvenuti nel magazzino della scienza, nel deposito della prossima ala del ciclopico Museo dell´Uomo che Torino ha già preparato e preparerà a San Salvario, nel Palazzo degli Istituti Anatomici. Sopra, nei lunghi corridoi e delle stanze che circondano un grazioso, romantico giardino, ci sono il Museo di Anatomia e il Museo della Frutta. E tra un anno, forse meno, tornerà il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, la vecchia star del palazzo, il discusso inventore della teoria secondo cui i delinquenti ce l´hanno scritto in faccia, il dissezionatore della devianza: pazzi, assassini ma anche geni, tutto quello che il cervello può avere di diverso, nel bene e nel male, di più nel male.
Il Museo Lombroso chiuso dal 1948 ricostruirà il mondo del professore, i suoi luoghi (lo studio, la biblioteca) e i suoi metodi. Ci saranno reperti anatomici, manufatti e scritti di criminali e alienati, armi proprie e improprie, reperti probatori, strumenti scientifici, fotografie, documenti, persino la forca dove impiccavano gli assassini. Non ci sarà, invece, la sua testa conservata in formalina dentro un vaso di vetro, con l´espressione corrucciata. Troppo macabra. Questo non vuol mica essere il museo dell´orrore.
Sopra, le vetrine. Sotto, nelle cantine, un magma scientifico di enorme suggestione e di incalcolabile valore. Il professor Giacomo Giacobini, docente di anatomia all´Università di Torino, è il responsabile e in qualche modo il custode di tutto questo. Il suo studio è quello dove lavorò Rita Levi Montalcini. «Entro un paio d´anni, dal nuovo Museo Lombroso all´ampliamento del Museo dell´Uomo, il cuore del positivismo torinese e italiano sarà un polo d´interesse unico, un luogo in cui discipline diverse si parlano, si collegano e raccontano le loro storie». Tenetelo a mente, il professor Giacobini. E anche il suo antico predecessore che si chiamava quasi come lui: Carlo Giacomini. Perché, più avanti, lo ritroveremo al piano di sopra. Sotto vetro.
Questo è un viaggio all´ingiù, nel tempo e nello spazio fisico del palazzo.

Scale. Ascensori. Porte. Chiavi che girano nelle serrature e le fanno scattare. Odore di umido, profumo di buio. Nel controluce volano particelle di polvere. Ecco i calchi delle sepolture preistoriche, siamo nel Paleolitico, più o meno 25 mila anni fa. Lo scheletro di una donna abbraccia un bambino, o così sembrerebbe. «In realtà era un nano. La donna lo cinge col braccio, glielo appoggia sul collo in un gesto di grande tenerezza» dice il professore. Tenerezza eterna, amore millenario e misterioso. «Tutti ci chiediamo se fossero parenti, se fossero morti insieme e perché. Naturalmente non avremo mai la risposta».
Sono calchi in resina, realizzati con un negativo in silicone nei luoghi di sepoltura, cioè nei siti archeologici. Ora stanno in corridoio, appoggiati alle pareti. Bisognerà estrarli da questa oscurità per mostrarli alle persone.

Così tutti potranno vedere il bimbo della grotta delle Arene Candide, a Finale Ligure, sepolto con una mantella di code di scoiattolo, ciottoli e conchiglie come giocattoli. Aveva sei, sette anni al massimo, diecimila anni fa. Di fronte a lui c´è il cosiddetto Giovane Principe, un quindicenne sepolto con un ricco corredo, una cuffia di conchiglie forate, i bastoni di comando in osso di alce, e poi pendagli d´avorio di mammuth. «Rarissimo in Italia a quei tempi, segno che ci troviamo al cospetto di un morto importante».
C´è anche un Uomo di Neanderthal, i suoi anni sono 50 mila: accanto allo scheletro in una fossa quadrata, i becchini preistorici misero una zampa di bisonte e una colonna vertebrale di renna, oggetti di un preciso rituale funebre. Però non esiste niente di macabro in questo scantinato in attesa d´essere museo, è come se la scienza avesse lasciato qui i suoi sedimenti, i suoi strati sovrapposti come le mura di Troia. Ecco l´immagine di un Uro, cioè l´antenato dei bovini domestici più massiccio di un bisonte, estinto attorno al 1600.

«E´ inciso nella pietra di profilo, però ha due occhi e due narici» spiega il professor Giacobini. «Quando Picasso vide l´originale disse “finalmente ho trovato il mio maestro”, perché proprio così aveva dipinto la prospettiva dei volti in Guernica».
La passeggiata è asistematica e dà i brividi. Fossili umani, la ricostruzione della donna preistorica chiamata Lucy, microscopi e provette, dipinti d´epoca e un Cro-Magnon alto quasi due metri, poi un banco di strumenti chirurgici: seghe da amputazione, spatole, bisturi. «Alcuni di questi oggetti venivano usati sul campo di battaglia, non si ha neanche idea di cosa significassero quattromila feriti a terra, per esempio dopo la battaglia di Solferino, senza assistenza né cure». Uno di questi strumenti è una sega di amputazione a catena di bicicletta: pensarne l´uso è già, a suo modo, una specie di tortura.
Oltre il grande atlante di anatomia del Mascagni – meravigliose tavole a colori in grandezza naturale – il labirinto procede tra banconi da lavoro e utensili come quelli per la bollitura delle ossa, e non bisogna scandalizzarsi perché anche il corpo è un oggetto. Lo stesso si prova al piano di sopra, nel Museo di Anatomia, dove i corpi e le ossa e le braccia e i cuori nei preparati sotto vetro ci raccontano chi siamo, e ogni storia è la nostra storia. Qui c´è uno scheletro smisurato e goffo. Apparteneva a Giacomo Borghello, nato a Novi Ligure nel 1810 e morto all´età di diciannove anni. Era alto due metri e 19 e lo esibivano al circo. Una povera vita da fenomeno da baraccone, e ora il suo destino è immutato, di nuovo in mostra e per sempre. Vicino a lui, come un fratello dolente, lo scheletro di un nano: a differenza di Giacomo, di lui non si sa nulla, non il nome né la vicenda umana, se non che si tratta di “un esempio di nanismo armonico”. Ma il nano e il gigante, nel silenzio ci parlano.
Il museo venne costruito come la navata di una chiesa, per sottolinearne l´aspetto di cattedrale della scienza. Ed è bellissimo. Dal 1876 al 1898 lo diresse il professor Carlo Giacomini. «Ma lui è in vetrina, io no», scherza il successore Giacomo Giacobini e intanto mostra il predecessore. Il quale sta nella sala in fondo, ritto e quasi solenne nel suo scheletro. Una targa ripete le parole del testamento in data 22 giugno 1898: “(…) Non essendo partigiano né della Cremazione né dei Cimiteri preferisco che le mie ossa abbiano riposo nell´Istituto Anatomico dove ho passato i più bei anni della mia gioventù ed al quale ho consacrato tutte le mie forze (…) Desidero ancora che il mio cervello venga conservato col mio processo e posto nel Museo insieme agli altri (…)”.

Sembrava solo una storia di ossa e cellule, invece è una storia d´amore.

 


Fonte: La Repubblica 03/12/2007
Autore: Maurizio Crosetti

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