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TORINO: Archeologi sperimentali sondano la civiltà dei “popoli del salmone”.

Con la stessa materia prima (legno di cedro) e con gli stessi attrezzi ricostruite le maschere rituali dei nativi della costa Nord-Pacifica.

La giovane disciplina dell’archeologica sperimentale intende, mediante la ricostruzione di manufatti con materiali e metodi di lavoro vicini all’epoca presa in esame, interpretare e meglio comprendere il pensiero e la cultura degli antichi.

E’ con questo fine che inizia la nostra ricerca per realizzare alcune maschere dei nativi americani della costa nord-occidentale: Tlingit, Tsimashian, Haida, Kwakiutl, Bella Bella, Nootka, Makah, Salish. Chiamati anche “popoli del salmone”, erano civiltà evolute che traevano dalla pesca la loro principale fonte di ricchezza e dedicavano all’arte e all’artigianato molto più tempo delle altre comunità nordamericane. La vita sulla costa era molto sociale: insieme si partecipava a riti, canti, danze e nelle serate invernali si raccontavano storie e si giocava d’azzardo. Uno stretto rapporto intercorreva tra queste popolazioni e il cedro, come prova una preghiera di un Kwakiutl a questo maestoso albero: “Amico, guardami! Sono qui a supplicarti per la tua veste. Sono qui per te: per il tuo legno, i tuoi rami, la tua corteccia, le tue radici. Sono qui perché tu abbia pietà di noi. Tu ci dai generosamente la tua veste e io sono qui a implorarti per questo, tu che dai lunga vita”.

Con il cedro rosso (Thuja plicata) costruivano tutto: dalle imbarcazioni alle case, dagli arnesi di uso domestico agli oggetti rituali (totem, maschere). Grandi commercianti e navigatori, con una canoa ricavata da un unico tronco di cedro lungo oltre 20 metri, percorrevano oltre mille chilometri per rifornirsi di merci.

I villaggi sulle spiagge dell’oceano Pacifico, riparati dalla retrostante foresta di cedri secolari, erano costituiti da una o due file di case plurifamiliari (accompagnate da altissimi totem di cedro rosso scolpiti e colorati) che impressionarono i primi esploratori europei, alla fine del XVIII secolo. Gli alberi venivano scelti, scorticati, preparati e raccolti da abili artigiani che lavoravano sotto la direzione di un esperto “architetto”.

Nelle case, lunghe fino a 50 metri e larghe 12, sedie intagliate, cucchiai, ciotole, culle e cassepanche di cedro, alcune delle quali custodivano i beni personali e il cibo essiccato altre, finemente decorate con conchiglie di aliotide, contenevano il tesoro della famiglia: fischietti e ornamenti sacri dei propri antenati.

Rendere visibile l’invisibile e il soprannaturale era, più che dei totem, compito delle maschere, antropomorfe e zoomorfe, che rappresentavano di solito le divinità fondatrici del clan ed erano le vere protagoniste di ogni cerimonia religiosa ma anche di ogni festa profana. I tipi di maschera erano molto vari per ciascun gruppo. Ogni individuo poteva possedere una o più interpretazioni artistiche legate all’antenato, all’eredità o all’avvenimento araldico. Le maschere, elaborate e articolate, movibili e mutevoli, erano uno degli aspetti culturali più tipici della costa nord-occidentale. Quelle dei Kwakiutl create per le Hamatsa (o danze della Società dei Cannibali) sono drammatiche e adeguate a raffigurare l’incontro, al margine dell’universo, tra l’uomo e maestosi uccelli soprannaturali. Una rete di fili nascosti da pesanti frange di scorza di cedro, ridotta a brandelli, ne permetteva l’uso; il danzatore poteva così sostenere il peso della maschera e al tempo stesso aprire e chiudere i becchi mobili dell’uccello divino.

Questo il percorso effettuato per ricostruire alcune maschere: dopo aver reperito il legno, lo abbiamo tagliato, sagomato e scolpito con accetta, coltello e crooked knife (il coltello dalla lama ricurva all’estremità, ricostruito ad hoc per intagliare il legno). Utensile maneggevole, oggi pressoché dimenticato, veniva usato dai Nativi come sgorbia, con una sola mano e con un movimento – per tagliare – che va dall’esterno verso il corpo di chi taglia. Abbiamo levigato le maschere con sabbia e conchiglia e infine le abbiamo pitturate con nero di fumo, caolino, ocre e colla di tendine animale come legante. Per quanto a noi sia estraneo il significato profondo di queste cerimonie, rimane il piacere di pensare che il cedro, scolpito e decorato, è tornato a “vivere” nell’anima di una maschera.

Fonte: La Stampa – Tuttoscienze 04/01/2006
Autore: Ivano Ciravegna
Link: http://www.liast.it

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