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ROMA. Quel patrimonio senza legge: l´area archeologica rischia il collasso: l´allarme della Soprintendenza.

Duemila auto l´ora. È vero che accade solo nelle ore di punta. Ma è anche vero che siamo sull´Appia antica, nel parco che si estende per tremilacinquecento ettari e che comprende la regina di tutte le vie (Regina viarum la chiamavano i romani), i mausolei, i sepolcri e i colombari dell´età repubblicana e poi di quella imperiale e protocristiana. Ed è ancor più vero che altre ottanta, centomila macchine tutte le mattine fremono a un incrocio poco distante da qui, al nodo di Ciampino, nel dubbio se infilarsi o meno, per raggiungere il centro di Roma, nella strada che Appio Claudio fece costruire a partire dal 312 avanti Cristo.

Il traffico è una delle grandi piaghe che affliggono l´Appia. Chi si avventura a piedi, solo con una capriola mentale immagina di stare in un parco. E se si ferma a gettare un occhio al di là delle recinzioni di ville che sembrano fortini militari per vedere un lacerto di muro o il basamento di una colonna (la gran parte di tutto il patrimonio archeologico è in residenze private), corre il rischio che qualche fuoristrada sfrecciando lo arroti.

«Per arrivare all´aeroporto di Ciampino passano tutti di qui, soprattutto i cortei di auto blindate con le delegazioni ufficiali», racconta Alma Rossi, direttrice del parco. E se si considera che Ciampino ospita i low cost e che nei paesi sui castelli romani ogni anno lievitano i residenti (ora abitano circa trecentocinquantamila persone), molti dei quali tutte le mattine vanno a lavorare a Roma, decidendo se passare per l´Appia antica a seconda di quanto è lunga la fila, si può avere un´idea di come la congestione possa solo crescere.


E la congestione è solo uno dei problemi. L´Appia vive un periodo di ansiosa attesa. Un Godot che ogni tanto si manifesta e poi svanisce. Non si capisce bene a chi spetti il suo governo, a chi, in primo luogo, tocchi la sua tutela. Si parla di ampliare i suoi confini, di spostare altrove tutte le attività commerciali e imprenditoriali più ingombranti e spesso abusive: carrozzieri, sfasciacarrozze, concessionari di auto, centri sportivi (questi ultimi indaffaratissimi a chiedere autorizzazioni per nuove piscine in vista dei mondiali di nuoto del 2009).

Ma in fondo nessuno sa bene quale sarà la sorte di questo immenso comprensorio archeologico e paesaggistico insieme, purtroppo percepito solo a brandelli, una di quelle meraviglie che intrecciano valori storici e monumentali come in poche altre parti del mondo – i ruderi della Villa dei Quintili e la valle dell´Almone, il fiume sacro ai romani, con i boschi di leccio e di roverella, i recentissimi scavi di Capo di Bove e il pianoro ondulato di Tor Marancia, uno degli ultimi luoghi dove in giugno a Roma si trovano le lucciole.

Dal 1965 il destino dell´Appia parrebbe tracciato: diventare un immenso parco pubblico (così prescriveva il decreto d´attuazione del piano regolatore di Roma approvato quell´anno). Ma la prospettiva sembra tanto lontana da rovesciarsi nel suo opposto, un territorio senza legge e senza futuro. “Parco di carta”, lo chiamava Antonio Cederna.

La condizione di stallo induce molta tristezza in Rita Paris, che presso la Soprintendenza archeologica di Roma ha la responsabilità dell´Appia (oltre che la direzione del Museo di Palazzo Massimo).

«Non sappiamo più quali siano le norme che governano quest´area», lamenta l´archeologa. «Il nuovo piano regolatore di Roma ha destinato l´Appia a parco regionale, per il quale è previsto uno specifico piano regolatore, chiamato piano d´assetto, che è stato preparato dall´Ente parco nel 2002. Noi della Soprintendenza abbiamo avanzato molte critiche, perché non c´era un riconoscimento specifico per la parte archeologica. Ma non sappiamo nulla né delle nostre osservazioni né del piano, che è fermo da anni alla Regione in attesa di essere approvato».

Intanto la Soprintendenza va avanti con i pochi soldi che ha, un milione l´anno per le manutenzioni ordinarie e appena duecentocinquantamila euro per gli scavi.

Una miseria.

Qualcosa si recupera con i ribassi nelle gare d´appalto: viene fissata una somma, poi vince chi offre il venti per cento in meno e quel che si racimola serve, per esempio, a sistemare la tenuta di Capo di Bove, una delle ultime acquisizioni della Soprintendenza.

«Ogni volta che dobbiamo porre un vincolo arrivano pressioni di ogni genere per ostacolare i nostri propositi, anche da parte di persone che non ci aspetteremmo mai di trovarci contro», insiste Rita Paris. Il cui tempo trascorre in prevalenza davanti alle pratiche di condono. E sarebbe niente il fatto di sottrarlo, quel tempo, agli scavi, ai restauri, alle mostre e alla ricerca, per dedicarsi a un´incombenza burocratica.

Se servisse a qualcosa. Il fatto è che i condoni non si sarebbero mai dovuti concedere, perché tutte e tre le leggi, pur sciaguratissime, escludevano sanatorie in zona archeologica. E invece i privati hanno fatto la domanda al Comune, hanno pagato la multa e ora, anche a distanza di più di vent´anni (il primo condono, quello di Craxi e Nicolazzi è del 1985) attendono ancora una definizione della pratica che la Soprintendenza non può avallare. Ma le pratiche si accumulano comunque in un groviglio di carte e di frustrazioni.

«Sono circa duemila», calcola Alma Rossi, «anche venti per uno stesso immobile: noi del Parco abbiamo espresso solo pareri negativi».

In trepidante attesa di approvazione è anche una legge regionale, adottata due anni e mezzo fa dalla Giunta e da allora ferma in Consiglio, che dovrebbe regalare al parco altri millecinquecento ettari. Il motivo dell´ampliamento, nelle intenzioni dei promotori (in primo luogo l´allora assessore regionale dei Verdi, Angelo Bonelli, ora deputato), è semplice: un parco vive bene se diminuisce la pressione edilizia ai suoi bordi e se il verde penetra nel tessuto cementizio della città, costituendo corridoi ecologici essenziali a una rigenerazione di quartieri asfissianti.

Urbanistica e archeologia viaggiano di concerto, come energicamente diceva Cederna. E come sottolinea Adriano La Regina, ex soprintendente archeologico di Roma, e ora presidente del Parco: «Il verde dell´Appia si incunea già nel cuore della città storica, attraverso la Passeggiata archeologica e il Circo Massimo arriva fino al Palatino, al Colosseo e ai Fori. L´ampliamento serve a rendere più umana parte della periferia romana».

Il progetto di ingrandimento del parco bloccherebbe, inoltre, operazioni lottizzatorie di diversa portata. Il più grande, segnalato da La Regina, è nel Comune di Marino (il parco dell´Appia antica scavalca i confini di Roma), dove su settanta ettari di suoli agricoli si vorrebbe costruire un grande insediamento commerciale e industriale, ottocentocinquantamila metri cubi. Lo stesso Comune di Marino prevede una lottizzazione anche nella zona di Mugilla, in un´area di grande interesse archeologico, dove emergono tracce di un insediamento d´età repubblicana (IV secolo a.C.), e per la quale la Soprintendenza ha chiesto l´assoluta inedificabilità.

L´altra operazione è nel Comune di Roma e si trascina da anni. Riguarda la zona di Colle della Strega e il Fosso della Cecchignola, un´ area verde di grande pregio per la sua fauna e la sua vegetazione che unisce il parco dell´Appia con la riserva di Laurentino Acqua Acetosa e che viene segnalato anche per i ritrovamenti storico-archeologici. Qui erano previsti edifici per settantaduemila metri cubi e una strada che avrebbe squarciato il bosco.

L´insediamento serviva, nelle intenzioni del Comune di Roma, a finanziare una serie di servizi che avrebbero dovuto riqualificare il Laurentino 38, famoso quartiere popolare, intenzioni contestatissime da un comitato di cittadini che ha raccolto migliaia di firme, ottenendo che la Regione stralciasse questa previsione. Sembrava fatta. Ma recentemente dall´amministrazione capitolina sono arrivati segnali contrastanti.

«Noi restiamo fermi agli atti ufficiali della Regione, che prevedono di non edificare», sostengono al comitato di cittadini, «ma sappiamo che sono fortissime le pressioni di costruttori e proprietari di aree che con l´allargamento del Parco dell´Appia si vedrebbero sottratti d´un colpo millecinquecento ettari, una superficie enorme sulla quale ricadono molti appetiti».

Nel frattempo cresce la fatica della tutela quotidiana. «L´Appia è esemplare del fatto che la tutela archeologica non si può limitare alla conservazione dei ruderi», spiega Rita Paris. «Ma dobbiamo prendere atto che non c´è nessun coordinamento fra le tante istituzioni che hanno responsabilità su quest´area, il Comune, la Regione, perfino dentro lo stesso ministero per i Beni culturali. Spesso ho la tentazione di lasciare questo incarico esprimendo pubblicamente l´impossibilità e l´inutilità di andare avanti, se non accade qualcosa. Perché in fondo, in questa condizione di equivoco generale, tutto precipita nelle stanze del mio piccolo ufficio».

 


Fonte: La Repubblica Roma, 04/01/20008
Autore: Francesco Erbani
Cronologia: Arch. Romana

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