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PIOMBINO (Li). L’Anfora di Baratti.

populonia

Il capolavoro esposto nel Museo Archeologico del territorio di Populonia, a Piombino (Li), non è di epoca etrusca e viene dal mare, dal Tirreno che, per la sua denominazione, deriva ancora oggi dal termine «Tyrrhenoi» con il quale gli Etruschi erano chiamati in lingua greca. Si tratta di un’anfora in argento dalle dimensioni ragguardevoli: 61 centimetri in altezza.
Venne rinvenuta alla fine di marzo del 1968 non a seguito di un intervento di archeologia subacquea, ma casualmente: rimase impigliata infatti nell’ancora della barca di un pescatore, Gaetano Graniero, che la recuperò proprio sollevando l’ancora dell’imbarcazione ormeggiata nelle acque tra San Vincenzo e Porto Baratti. Una zona prossima a Populonia, l’unica città-stato etrusca fondata a ridosso del mare e con una successiva fase romana.
L’uomo, come si può immaginare, rimase sorpreso, ma intuì il valore della scoperta. Non conoscendo le leggi di tutela, non segnalò il ritrovamento alle autorità preposte, ma scrisse al presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, comunicando che avrebbe voluto donargli l’anfora sperando in un atto di liberalità che gli consentisse l’acquisto di una nuova barca.
La notizia si diffuse rapidamente e il Nucleo di Polizia Tributaria sequestrò il bene e denunciò lo scopritore, che venne assolto pochi mesi dopo dal pretore di Livorno dato che aveva: «sostanzialmente adempiuto alle prescrizioni della Legge sulla Tutela delle cose di interesse artistico e storico, data la particolarissima natura dell’Organo interpellato».
Al pescatore venne riconosciuto anche il premio di ritrovamento, pari a due milioni di lire. Con la cifra acquistò l’agognata barca nuova: così riportano le cronache dell’epoca e testimonia Guglielmo Maetzke, al tempo soprintendente archeologo della Toscana che seguì la vicenda da vicino.
Le circostanze fortunose del ritrovamento non forniscono informazioni che sarebbero state preziose sul contesto originario. Di conseguenza non sappiamo con certezza se l’anfora facesse parte del carico di una nave affondata, come sembra probabile. Non sappiamo neppure se fosse isolata, o facesse parte di un insieme di altri oggetti preziosi destinati al mercato, o, ancora, se fosse finita, dopo l’uso, in un carico di rottami in metallo destinati a essere fusi di nuovo.
Consegnata al Centro di Restauro dell’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana, l’anfora venne restaurata mirabilmente dal restauratore Sergio Neri. Vediamola più da vicino: ha la forma di una grande fiasca ovoidale rastremata verso il basso e un lungo collo cilindrico. Presenta un confronto ravvicinato: un’altra anfora sempre in argento rinvenuta a Conçesti in Moldavia, ma le decorazioni differiscono.
La decorazione di quella rinvenuta nelle acque di Populonia è costituita da ben 132 medaglioni di forma ovale e di grandezza differente, ognuno con un’unica figura. Essi sono disposti su sette fasce sul corpo del vaso e su tre fasce sul collo. L’identificazione dei singoli personaggi è complessa e, ancora di più, risulta complicato metterli in relazione con quelli raffigurati sui medaglioni vicini e tentare di comprendere il filo rosso che leghi l’intera decorazione. Con questo rompicapo si è misurato un grande archeologo del Novecento, Paolo Enrico Arias, di cui si riassume l’interpretazione proposta.
Sul collo sono presenti complessivamente venti medaglioni disposti su tre fasce: due composte da sei personaggi e due da quattro. I dodici personaggi delle prime due fasce sono stati riconosciuti nei mesi dell’anno o, in alternativa, nei segni dello Zodiaco. Gli otto personaggi delle fasce inferiori, nelle stagioni dell’anno e nelle quattro parti in cui s’immaginava diviso l’universo abitato («oikoumene») nel mondo antico.
Sul corpo del vaso le fasce, come si è detto, sono sette e ciascuna presenta sedici figure. Partendo dall’alto, nella prima e nella sesta fascia sono rappresentati bambini con corte tuniche che suonano e danzano; nella seconda e nella quinta, sono giovani, uomini e donne, nelle pose tipiche del corteo dionisiaco. Nelle due fasce centrali sono raffigurate numerose divinità della mitologia greco-romana: quasi un dizionario illustrato di essa. Nella settima fascia protagonisti sono Eros e Psiche.
Sul corpo dell’anfora è raffigurato anche un vecchio barbato identificabile forse con Aion, la personificazione del tempo ciclico, che ritorna in un grande piatto d’argento rinvenuto a Parabiago (oggi al Civico Museo Archeologico di Milano) e databile al IV secolo d.C. Le figure delle fasce centrali potrebbero costituire una sorta di corteo dionisiaco, aperto e chiuso dai danzatori e dalle danzatrici dei registri periferici. L’anfora, rinvenuta nel mare di Baratti, viene datata alla fine del IV secolo d.C.
Nelle stesse acque, poco dopo, negli anni Dieci del V secolo d.C., navigò il poeta di origine gallica Rutilio Namaziano, di ritorno da Roma verso il Paese natale. Egli ebbe modo di osservare l’antica città di Populonia e ne descrisse lo stato di abbandono in alcuni versi del poemetto De reditu suo: «Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa / immensi spalti ha consunto il tempo vorace. / Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri / giacciono tetti sepolti in vasti ruderi» (da Il ritorno, a cura di Alessandro Fo, Torino, Einaudi).

Autore: Giuseppe Maria Della Fina

Fonte: www.ilgiornaledellarte.com 6 nov 2023

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