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IL MERCATO NERO? Manna per l’arte.

IL lupo stavolta sostiene di aver perso tanto il pelo, quanto il vizio, ma non la nostalgia dei bei tempi andati.

Per lupo qui si intende il Metropolitan Museum di New York, reo confesso di aver esposto tesori archeologici italiani di dubbia provenienza. Nelle settimane scorse il museo ha finalmente accettato di venire a patti col governo di Roma, restituendo alcuni capolavori come il Vaso di Eufronio. Eppure il direttore, Philippe de Montebello, non è convinto di avere qualcosa da rimproverarsi. Anzi, in una lunga memoria difensiva travestita da intervista per il giornale New York Times, ha sostenuto che il mercato nero è stato una specie di manna per l’arte, perché ha consentito di salvare dall’oblio decine di pezzi pregiati. Niente scuse, insomma, ma piuttosto la rivendicazione come merito di una prassi almeno discutibile, se non semplicemente illegale.

Per chi non credesse ai propri occhi, ecco le parole con cui de Montebello ha congedato i cronisti del Times, al termine di una piacevole colazione nel suo ufficio affacciato su Central Park: “La verità – per quanto spiacevole possa essere – è che il mercato nero, entro certi limiti, è responsabile per la preservazione di moltissimi oggetti”.

I tombaroli, in poche parole, meriterebbero quasi una medaglia. Di sicuro poi, secondo il direttore del Met, la sua istituzione non ha la colpa di aver instigato il crimine: “Se avete passato gli esami elementari di aritmetica, non c’è modo di sostenere che la minuscola quantità di acquisti fatti dai musei americani abbia un qualsiasi impatto su cosa sta accadendo in quella parte del mondo”. In sostanza i tombaroli non rubano perché poi c’è qualcuno che acquista i loro capolavori trafugati, ma per puro afflato estetico e determinazione messianica a salvare i pezzi dall’oblio culturale.

Se questo non bastasse a far drizzare i capelli sulla testa del ministro Buttiglione, nell’apologia anapologetica di Montebello ci sono anche altre chicche gustose. Lui, nel profondo, è arrabbiato nero con quei zeloti dell’Fbi, che si sono prestati a stringere la mano dei Carabinieri per proteggere una strana chimera chiamata diritto: “Io sono perplesso dallo zelo con cui gli Stati Uniti si affrettano ad abbracciare le leggi straniere, che alla fine possono privare i cittadini americani di oggetti utili alla loro istruzione e al loro diletto”. Dunque il settimo comandamento, «non rubare», vale solo quando è scritto in inglese. Se qualche presuntuoso europeo si azzarda ad inserirlo nei propri codici, peggio per lui: non tocca certo a Washington di fermare i tombaroli, quando la loro missione disinteressata contribuisce alla gioia e all’arricchimento culturale degli americani.

Naturalmente l’accordo raggiunto dal Met con le autorità italiane protegge il museo dall’accusa di aver commesso reati: anche de Montebello, in sostanza, è stato una vittima degli imbroglioni. Quello che stupisce, però, è l’assoluta mancanza di motivazioni etiche nella scelta del direttore. Il capo del Metropolitan, infatti, ha spiegato al Times che non si è accordato con Roma perché esporre capolavori trafugati è sbagliato, ma semplicemente perché la pressione era diventata troppo alta e non intendeva compromettere le relazioni professionali con l’Italia: “Sono nostri amici e colleghi. Volevamo metterci le irritazioni alle spalle”.

Montebello, per ovvie ragioni logistiche, rifiuta la teoria archeologica secondo cui i pezzi hanno più valore culturale se vengono esposti nel loro ambiente originale, e non è neppure convinto che stia rimandando gli oggetti trafugati al mittente giusto, soprattutto per quanto riguarda l’argenteria di Morgantina: “Per favore, in Sicilia ci sono decine di buchi! E molta gente fuma. E io credo persino a Babbo Natale!”.



Fonte: La Stampa 02/03/2006
Autore: Paolo Mastrolilli

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