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Giampiero GALASSO: Quale futuro per gli archeologi italiani.

Sembrava qualche anno fa che gli archeologi italiani avessero intenzione di organizzarsi sul serio: in diverse città del nostro bel Paese, tra cui Roma e Napoli, si era tentata perfino l’apertura di un proprio sportello presso le sedi sindacali per fornire informazioni ed aggiornamenti su uno dei mestieri che molti c’invidiano e che indubbiamente resta tra i più affascinanti del mondo. Nella calda estate di due anni fa, poi, aveva suscitato clamore nell’opinione pubblica italiana la notizia del picchetto che un centinaio di archeologi campani aveva tenuto davanti alla Porta Marina di Pompei, dove fu inscenata una dura protesta per chiedere il riconoscimento della professione e dei diritti lavorativi, proponendo almeno l’istituzione nel nostro Paese di liste regionali di archeologi professionisti.

Ma nonostante tutte le iniziative portate avanti da gruppi e associazioni di archeologi, oggi ci si trova ancora in una situazione di stallo.
Da tempo, com’è noto, in Italia gli archeologi sono ancora una categoria “non regolamentata” e da decenni si battono invano per un adeguato riconoscimento della propria professionalità nelle sue molteplici sfaccettature e nella pluralità dei suoi possibili campi d’impiego – aspetto, quest’ultimo, che coinvolge diversi tipi d’interlocutori e che si farà ancora più complesso in futuro, in una prospettiva di valorizzazione delle professionalità relative ai Beni Culturali e Ambientali –. Ma i vari governi – e le varie commissioni cultura della Camera dei deputati – non sembrano essere tanto interessati al problema e per svariati motivi non sono mai arrivati ad una ratifica definitiva di un testo di legge ad hoc: eppure si tratta di migliaia di liberi professionisti dello scavo e della documentazione dei tanto vantati beni culturali, che hanno sudato per anni negli atenei italiani.

Oggi, infatti, nonostante le risorse culturali a fini turistici, che vedono quali protagonisti del settore proprio aree e musei archeologici, siano esaltate in tanti programmi di sviluppo economico nazionali e regionali, la professione dell’archeologo risulta ancora poco o per niente considerata dal contesto sociale, che sembra vedere il suo ruolo come inutile per la collettività ed un lusso che la società, soprattutto in tempi di recessione economica, proprio non può permettersi.
Ed allora una forte risposta alla stasi ormai creatasi dovrebbe essere nuovamente ricercata, con l’appoggio di tutte le forze sindacali e naturalmente di tutti i protagonisti del settore, in una serie di incontri e di manifestazioni organizzate per raggiungere finalmente un serio tavolo di trattative che possa porre concretamente le basi per una revisione giusta ed urgente della professione di archeologo, del suo rapporto con le istituzioni e con i cittadini e la cultura.

Sarebbe questo il modo migliore per ottenere, quanto prima, almeno una riconsiderazione globale della personalità professionale dell’archeologo, che non può che partire dall’istituzione di un Albo professionale e dalla definizione e dall’ufficializzazione delle competenze pratiche, soprattutto nell’ambito cantieristico, che può poi costituire un punto di riferimento normativo anche per altre trattative, quali quelle sulle collaborazioni esterne con le Soprintendenze, sui rapporti di consulenza per enti pubblici (comuni, province, regioni) e privati, università e musei.

Eppure continua ad essere non tanto facile diventare archeologi nel nostro Paese e anche se non sembra reggere più l’immagine dell’avventuriero solitario alla ricerca di tesori nascosti, coniato dalla fantasia di registi americani, le facoltà universitarie italiane dove è possibile seguire questo percorso di studi registrano un notevole incremento d’iscrizioni.
Alla luce della realtà, però, tutto ciò ci preoccupa e non poco: dopo tanti anni di studio (solitamente quattro per la laurea e tre per il diploma di specializzazione – o tre più due secondo la neocontestata riforma universitaria –) coloro che sono in possesso di una specializzazione in archeologia e di diversi anni di tirocinio non sono, dunque, riconosciuti professionalmente e restano per il 60 per cento o disoccupati o dediti ad altre occupazioni, spesso improprie, o precari cronici.

L’istituzione di un Albo e di un ordine professionale cui si accede con esame di Stato resta, quindi, di grande attualità ed estrema urgenza e l’unica, vera garanzia per dare, finalmente, un’identità ed una dignità professionale agli archeologi italiani ed una definitiva regolamentazione al loro complesso e delicato lavoro.

Autore: Giampiero Galasso

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