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GB. La vita dei Neanderthal non era poi così pericolosa.

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Fossil skull cast of a Neanderthal (Homo neanderthalensis) an extinct hominid species. Neanderthals were relatives of modern humans that lived in Euro...

Le lesioni fanno parte della vita quotidiana, da un graffio sulla pelle a un osso rotto fino a un trauma fatale. E anche se molte lesioni sono accidentali, altre possono essere una conseguenza del comportamento, dell’attività o delle norme sociali di un individuo o di un gruppo, caratteristiche che ci parlano delle società, delle tensioni e dei rischi presenti all’interno e tra i diversi gruppi.
In un articolo su “Nature”, Beier e colleghi forniscono ora una serie di dati che sfidano la diffusa opinione che tra le popolazioni di Neanderthal vi fosse un tasso di lesioni traumatiche significativamente superiore a quello riscontrabile fra gli esseri umani. Il risultato mette in discussione l’idea che i comportamenti e le tecnologie dei Neanderthal li abbiano esposti a livelli particolarmente elevati di rischi e insidie.
Le storie di feriti e di morti sono sempre al centro dei notiziari. Ma al di là della nostra attrazione per le vicende di singoli individui, queste informazioni sono interessanti anche per ciò che ci dicono sulle nostre società. Tuttavia, per capire appieno cosa potrebbe determinare l’attuale grado di violenza, dobbiamo guardare anche al passato e identificare le cause che ne sono alla radice. Ma fino a che punto dovremmo guardare indietro? Indubbiamente, alle origini evolutive dei processi che modellano le tendenze e le capacità comportamentali, sociali e cognitive.
Gli antropologi studiano i resti scheletrici per ricostruire aspetti di vite antiche, costruendo una “osteobiografia” che mette in luce una parte della storia della vita di un individuo. Gli scheletri conservano – sotto forma di fori, superfici deformate, disallineamenti ossei e fratture secondarie che si irradiano da un punto d’impatto – una firma dei traumi che hanno portato alla frattura, al taglio o alla perforazione delle ossa anche dopo che le ferite sono guarite.
Nei fossili di Neanderthal sono state spesso identificate delle lesioni traumatiche, in particolare alla testa e al collo, e questo ha fatto ritenere che nelle popolazioni neanderthaliane le lesioni scheletriche fossero più frequenti che nelle popolazioni umane moderne.
Ma non è così, secondo Beier e colleghi, che hanno analizzato le descrizioni pubblicate di Neanderthal e di crani fossili umani moderni trovati in Eurasia fra 80.000 a 20.000 anni fa circa. Confrontando il numero di crani con ferite e non nei reperti di Neanderthal e di umani moderni, gli autori riferiscono livelli di trauma cranico simili in entrambi i gruppi.
La forza delle analisi di Beier e dei colleghi sta nella progettazione dello studio. Invece di confrontare i dati dei Neanderthal con quelli di popolazioni umane più recenti o viventi, come hanno fatto studi precedenti, gli autori hanno basato i loro confronti su esseri umani che non solo hanno condiviso con i Neanderthal aspetti dell’ambiente in cui vivevano, ma la cui documentazione fossile avesse anche un livello di conservazione simile.
I ricercatori hanno analizzato i dati relativi a 114 crani di Neanderthal e 90 crani di umani moderni, annotando i dati su 14 ossa craniche (le principali) e raccogliendo informazioni che andavano da quelle su un singolo osso, nei fossili mal conservati, a quelle relative a tutte e 14 le ossa nei fossili meglio conservati.
In totale, gli autori hanno registrato l’incidenza dei traumi in 295 ossa di Neanderthal e 541 ossa di umani moderni. Hanno anche raccolto altre informazioni, come la percentuale di ciascuna delle 14 ossa conservatesi per ciascun individuo, oltre a dettagli come il sesso, l’età alla morte e la posizione geografica del fossile.
Beier e colleghi hanno condotto due serie di analisi statistiche – una basata sulla presenza o assenza di traumi in ciascuna delle ossa craniche, l’altra sui singoli crani fossili considerati nel loro complesso – per verificare se ci fossero differenze statisticamente significative tra la prevalenza di traumi nei fossili di Neanderthal e in quelli umani. Hanno inoltre valutato se la prevalenza dei traumi era legata al sesso o all’età, tenendo conto della conservazione dei fossili, della posizione geografica e dei possibili effetti di interazione tra le diverse variabili. Le due analisi hanno dato risultati simili.
Più completi sono i fossili, più è probabile che abbiano conservato le prove di lesioni. Questo potrebbe sembrare ovvio, ma è un problema spesso ignorato in questi studi. Beier e colleghi offrono così un modo per affrontare questo tipo di distorsione nel materiale disponibile. Una volta tenuto conto del grado di conservazione dei fossili, la prevalenza di traumi prevista nei Neanderthal e negli umani moderni è quasi la stessa.
Sia i maschi di Neanderthal che quelli umani moderni mostrano una maggiore incidenza di traumi rispetto alle femmine delle rispettive specie, un andamento che rimane lo stesso per gli esseri umani di oggi.
Un ultimo risultato intteressante è che, sebbene le lesioni traumatiche fossero presenti in tutte le fasce di età studiate, i Neanderthal con un trauma alla testa avevano più probabilità di morire prima dei 30 anni rispetto agli umani moderni. Gli autori interpretano questo risultato come una prova che, rispetto agli umani, da giovani i Neanderthal riportavano più lesioni, o che avevano più probabilità di morire dopo essere stati feriti.
Lo studio di Beier e colleghi non invalida le precedenti stime sui traumi tra i Neanderthal, ma offre un nuovo quadro di riferimento per l’interpretazione di questi dati, mostrando che il livello dei traumi fra i Neanderthal non era straordinariamente più elevato rispetto a quello dei primi esseri umani vissuti in Eurasia.
Ciò implica che il tasso di traumi neanderthaliano non richiede spiegazioni particolari e che il rischio e il pericolo erano parte della vita dei Neanderthal tanto quanto lo erano del nostro passato evolutivo.
Lo studio si aggiunge al crescente numero di prove che i Neanderthal avevano molto in comune con i primi gruppi umani. Tuttavia, la scoperta che i Neanderthal potrebbero aver subito traumi in età più giovane rispetto agli umani moderni, o che avevano un maggiore rischio di morte in seguito alle lesioni, è affascinante, e potrebbe essere una chiave di lettura del perché la nostra specie ha avuto un vantaggio demografico rispetto ai Neanderthal.
Questa è l’ultima parola sull’argomento? La risposta è no. Beier e colleghi hanno valutato solo i traumi cranici. E’ possibile che i Neanderthal subissero più lesioni in altre parti del corpo rispetto agli umani moderni? Ci sono dati che suggeriscono che potrebbe essere così. Inoltre, sebbene le analisi degli autori dimostrino la forza di uno studio ben progettato basato su grandi campioni, i dati usati sono stati registrati da molti ricercatori e a vari livelli di dettaglio, aumentando la possibilità di errori metodologici.
Infine, le cause delle lesioni potrebbero fornire alcuni squarci sul comportamento, sulle attività o sulle norme sociali del passato. Dalla forma, dalla posizione e dall’estensione delle lesioni traumatiche negli scheletri e da caratteristiche quali l’affilatura dei bordi delle fratture o il grado di guarigione delle lesioni, talvolta è possibile stabilire la causa più probabile di un trauma; per esempio, se la lesione è dovuta a un incidente di caccia, a violenze interpersonali o a conflitti tra gruppi.
Inoltre, la sopravvivenza dopo un grave trauma potrebbe indicare che la persona ferita è stata curata da membri della sua società. Stabilire la probabilità di ciascuno di questi scenari per i Neanderthal e per i primi esseri umani moderni continuerà senza dubbio a sfidare gli scienziati per molti anni.

Autore:
Marta Mirazón Lahr insegna paleoantropologia all’Università di Cambridge, dove dirige anche il Duckworth Laboratory, che ospita importanti collezioni di resti scheletrici di primati umani e non umani.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Nature” il 14 novembre 2018. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

Fonte: www.lescienze.it, 21 nov 2018

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