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FREJUS (F). C’è un porto romano sotto il prato.

freius

Nuove importanti scoperte sulla durevolezza delle strutture realizzate dagli antichi romani sono state compiute quest’estate a Fréjus, durante gli scavi effettuati sul sito della Bastide Mège, che di fatto conserva, sotto il terreno, le banchine orientali del porto romano. Sotto il prato c’è un porto, insomma. Consistenti depositi alluvionali lo hanno interrato, ma i muri dell’infrastruttura romana sono intatti, quanto i legni dei pali d’attracco.
Gli archeologi hanno così scavato non solo per riportare alla luce e consegnare alla città importanti vestigia, ma per verificare in modo ravvicinato le modalità costruttive dei nostri antenati e i segni del cantiere di realizzazione del porto.
Fréjus è un comune francese dalle profonde radici romane. E’ situato al Sud, sul mare nostrum, nel dipartimento del Var, che fa parte della Regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Era una città-porto, per la flotta militare romana. Originariamente abitato da popolazioni celto-liguri dislocate nell’area circostante la baia di Aegytna, il territorio vide in seguito la fondazione di un avamposto da parte dei focesi di Massalia.
Ed ecco la svolta, che porta con sé le aquile delle legioni e la malta romana. Nel 49 a.C., Giulio Cesare istituì l’insediamento di Forum Iulii tra gli Oxubii con l’obiettivo di creare un porto alternativo a Massalia (Marsiglia). Ottaviano Augusto successivamente ampliò il porto, includendo qui, a livello di flotta, le navi di Marco Antonio catturate nella battaglia di Azio. Tra il 29 a.C. e il 27 a.C., il luogo fu scelto come insediamento per i veterani della Legio VIII, guadagnando così il titolo di colonia Octavanorum. Nel 22 a.C., Augusto lo designò come la capitale provinciale della Gallia Narbonense.
La sua rilevanza era dovuta al fatto che non solo era la principale base della flotta militare romana in Gallia, ma era anche attraversata da importanti vie della regione, tra cui la via Iulia Augusta. Durante il regno di Tiberio, furono realizzati la maggior parte dei monumenti romani ancora presenti nella zona.
Questi ultimi scavi, organizzati dalla Città di Fréjus (Dipartimento di Archeologia e Patrimonio) e dal Centro Camille Jullian (AMU/CNRS), con il sostegno finanziario di Ministero della Cultura (DRAC/SRA), riguardano l’intera topografia del bacino portuale romano.
Pierre Excoffon (Direttore dell’Archeologia e del Patrimonio della città di Fréjus), Emmanuel Botte (CCJ/CNRS/AMU) e Nicolas Carayon (IpsoFacto), hanno guidato la squadra di scavo, composta da agenti della Direzione dell’Archeologia e del Patrimonio della città e studenti in formazione nell’ambito di stage.
“Abbiamo scoperto la parte superiore dei cassoni, o casseri in legno, che venivano calati in mare e che venivano riempiti di calcestruzzo pozzolanico (calce, sabbia e frammenti di tufo vulcanico, che assicurano la tenuta al mare e l’indurimento continuo), necessario per costruire le parti sommerse delle banchine. – dice l’archeologo Pierre Excoffon – Sapevamo che questo sistema di casseforme esisteva a Fréjus. Ai tempi dei romani, in questo punto dello scavo, saremmo stati in mare aperto”. Quindi per realizzare il porto furono utilizzate casseforme per fare le colate sulle quali, poi, murare. “Abbiamo trovato i segni delle casseforme, in negativo, nella muratura. Finalmente abbiamo le prove materiali della tecnica utilizzata dai romani. Siamo orgogliosi di questa scoperta importante per l’archeologia di Fréjus, per il bacino del Mediterraneo e per la storia delle costruzioni romane in Francia”.
Altri elementi lignei potrebbero corrispondere a moli o punti di approdo dell’antico porto romano di Forum Julii. Il loro stato di conservazione è davvero notevole ed eccezionale. “Il tutto si trova in una parte di cui non conoscevamo lo stato di conservazione, dall’altra parte del bacino portuale. Questi elementi lignei potrebbero datare alla fine del I secolo d.C. La datazione in corso mediante dendrocronologia (analisi degli anelli di crescita annuali al fine di ottenere informazioni sugli eventi passati) e C14 (carbonio 14) permetterà di affinare questa ipotesi” spiega ulteriormente Pierre Excoffon.
Ma da dove deriva la potenza e l’eternità incorrotta dei muri romani? Se ne sono occupati recentemente anche gli americani, che hanno cercato di capire e spiegare sotto il profilo chimico l’”incorruttibilità” dei muri del Mausoleo di Cecilia Metella, a Roma.
Il Journal of the American Ceramic Society ha pubblicato uno studio condotto dai ricercatori del Massachusetts institute of technology (Mit) di Boston, guidati da Admir Masic e Marie Jackson. Il segreto per costruzioni eterne e sicure sta nel materiale vulcanico, inserito in un miscuglio che, peraltro, era stato indicato da Vitruvio e forse non compreso, dopo i tempi dell’antica Roma.
Il Mausoleo di Cecilia Metella – che risale alla seconda metà del primo secolo a.C. – avrebbe resistito al tempo in maniera sorprendente grazie al materiale vulcanico scelto dai costruttori, che produce un’interazione chimica positiva con la pioggia e con le acque di falda che rafforzerebbero i leganti – trasformandoli – anziché destrutturarli ed eroderli. E’ evidente che questo “segreto” riguarda molti monumenti e infrastrutture romane, come i porti. Com’è palese che l’azzeramento di tanti edifici romani fu provocato, in buona parte, dal recupero di materiali edilizi, nel tempo, da parte dei discendenti dei romani stessi e delle popolazioni barbariche. Ma torniamo al “calcestruzzo eterno”, quello che “risorge”.
A giudizio dei tecnici americani la formula sta – sottovalutata – in Vitruvio, testimone delle raffinatissime tecnologie costruttive della tarda Repubblica romana. Vitruvio avrebbe indicato la stessa tecnica utilizzata, ai massimi livelli, nel Mausoleo di Cecilia Metella. “Costruire muri spessi di mattoni grezzi o con aggregati di roccia vulcanica, uniti alla malta fatta con calce e tefra vulcanica (frammenti porosi di vetro e cristalli delle eruzioni), potrebbe portare a strutture che non vanno in rovina nel tempo” scriveva Vitruvio. Elemento portante dell’immortalità del muro è pertanto il legante con materiale vulcanico, forse più resistente dell’acciaio stesso.
Lo studio americano ha sottolineato come i cristalli di leucite, minerale ricco di potassio, nell’aggregato vulcanico possono dissolversi nel tempo, e rimodellare e riorganizzare l’interfaccia tra gli aggregati vulcanici e la matrice di cemento, migliorandone la coesione.
La tefra usata per la malta della tomba di Cecilia Metella aveva molta leucite ricca di potassio.
Secoli di pioggia e acqua di falda filtrata nelle mura hanno dissolto la leucite e rilasciato il potassio nella malta. La malta, a sua volta, si è configurata come mattoni di Cash (calcio-alluminio, silicato e idrato) insieme a cristalli di un minerale chiamato stratlingite. Risultato finale di un consolidamento di autogenerazione della struttura.

Autore: Federico Bernardelli Curuz

Fonte: www.stilearte.it, 22 dic 2023

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