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DANIMARCA. Una nuove versione del popolamento delle Americhe.

Il popolamento delle Americhe è stato molto più complesso di quanto ipotizzato, e in alcune regioni vi hanno contribuito gruppi ancestrali finora sconosciuti, come dimostra una “firma” genetica che li apparenta alle popolazioni australasiatiche, in particolare agli indigeni del Papua, dell’Australia e delle isole Andamane. A scoprirlo è stato un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Eske Willerslev e J. Víctor Moreno-Mayar dell’Università di Copenaghen, in Danimarca, che firmano un articolo pubblicato su “Science”.
Molti studi si sono concentrati sulle prime migrazioni umane in Nord e Sud America, arrivando alla conclusione – basata prevalentemente sul confronto del genoma di persone viventi e un numero limitato di DNA antichi, provenienti per lo più dal Nord America – che le prime popolazioni americane avrebbero iniziato a differenziarsi dai loro antenati siberiani ed estremo-orientali poco meno di 25.000 anni fa; in seguito, circa 15.000 anni fa, queste prime popolazioni si sarebbero diversificate ulteriormente in nordamericane e sudamericane. Tuttavia ben poco si sapeva sulla dinamica dei successivi spostamenti di queste genti.
Ora Moreno-Mayar e colleghi hanno sequenziato il genoma di 15 antichi americani, sei dei quali vissuti oltre 10.000 anni, provenienti da località di tutto il continente: dall’Alaska fino alla Patagonia. La scoperta più sorprendente è stata la presenza di un chiaro segnale genetico australasiatico in popolazioni del Sud America, del tutto assente in quelle del Nord America.
“Il fatto che questo segnale non sia stato documentato in Nord America – osserva Moreno-Mayar – implica che un gruppo precedente [a quelli considerati i primi americani] che lo possedeva era già scomparso, oppure che un gruppo giunto più tardi ha attraversato il Nord America senza lasciare alcuna traccia genetica.”
Inoltre, le analisi hanno mostrato che le ondate migratorie da nord a sud sono state molteplici, portando a popolazioni chiaramente diversificate, ma secondo un modello tutt’altro che lineare. Le popolazioni insediatesi per prime in America centrale, per esempio, sono risultate geneticamente più differenziate sia dalle popolazioni del nord sia da quelle del sud. A mostrare la complessità del quadro è stata anche la scoperta che il genoma estratto dai resti umani scoperti nella Spirit Cave, in Nevada, quindi Stati Uniti, è sorprendentemente simile a quello dei resti trovati a Lagoa Santa, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, a testimonianza di un rapidissimo spostamento nel continente del loro gruppo di appartenenza.
Singolarmente, inoltre, i genomi della Spirit Cave e di Lagoa Santa sono molto più vicini ai nativi americani contemporanei rispetto a qualsiasi altro gruppo antico o contemporaneo sequenziato fino a oggi nel continente. Una scoperta, questa, che ha anche permesso di porre fine a una ventennale contesa giuridica fra le autorità statunitensi e la nazione dei Paiute-scioscioni – la principale popolazione di nativi americani che vivono in Nevada – che dopo la scoperta dei resti ne aveva rivendicato la restituzione in base al Native American Graves Protection and Repatriation Act.
Proprio grazie alle analisi effettuate da Eske Willerslev e colleghi, nel 2016 lo scheletro di Spirit Cave è stata restituito alla tribù e all’inizio di quest’anno si è svolta una cerimonia di sepoltura privata a cui ha partecipato anche Willeslev.
Un altro studio specificamente dedicato alla genetica delle popolazioni andine degli altopiani e al loro adattamento a quel difficile ambiente – effettuato da un gruppo internazionale di ricercatori diretto da John Lindo della Emory University di Atlanta e pubblicato su “Science Advances” – ha mostrato che i primi insediamenti stabili sull’altopiano risalgono a un periodo compreso fra i 9200 e gli 8200 anni fa.
Le analisi effettuate su una serie di DNA antichi – di età compresa fra i 6800 e i 1400 anni fa – hanno rivelato che i primi adattamenti all’altitudine sono insorti piuttosto rapidamente; tuttavia – abbastanza sorprendentemente, come osservano i ricercatori – non hanno interessato geni legati all’adattamento all’ipossia (carenza di ossigeno). (Le popolazioni andine attuali sono geneticamente predisposte a una più elevata produzione di emoglobina nel sangue.) Le prime mutazioni hanno invece interessato il sistema cardiovascolare.
Ma la modifica genetica più incisiva ha riguardato la capacità di digestione dell’amido. Verosimilmente è stata una risposta adattiva alla dipendenza da una dieta che per millenni ha visto la patata, ricca di amido, come fonte alimentare assolutamente primaria.

Fonte: www.lescienze.it, 9 nov 2018

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